Giancarlo Ratti, da Calindri ai «Cesaroni»

Lui è quello che parla veneto alla Garbatella, si indigna dei coatti Cesaroni, apre un esercizio proprio accanto alla bottiglieria dei due fratelli romani, appassisce succube sotto l’inclemente sguardo di una moglie tiranna che gli impedisce commistioni con la famiglia allargata di Amendola anche quando lui, a contatto col «nemico», vacilla un po’ nel suo essere ottusamente «nordista». A lui, piacerebbe anche quel confuso cespuglio genealogico fantasiosamente potato dai suoi dirimpettati, ma la consorte gli recide ogni entusiasmo. Oggi che per esigenze radiofoniche, per tre giorni alla settimana risiede a Roma (gli altri li passa a Varese con la famiglia), quando si affaccia al mercato vicino casa «ci vado sempre poco prima che chiuda, sono bravissimo a fare la spesa», quello dall’altra parte della bancarella gli urla: «A’ Barilon, che te do?». Ogni tanto gli apici sono strani, perché ti portano fuori «gusto» rispetto a tutto ciò che ci sta sotto. Ma se oggi, Giancarlo Ratti, l’antagonista dei Cesaroni, dovesse pensare alle vere svolte della sua vita, a quando ha iniziato ad arrampicarsi per la vetta, parlerebbe di due cose: di una moglie parrucchiera sposata a quarantacinque anni «dopo un po’ di storie in cui mi si chiedeva regolarmente il conto è arrivata lei che non chiedeva nulla e mi risolveva la vita», e di un programma radiofonico, Il ruggito del coniglio. Perché è da lì che è partito tutto.
Quando un giorno del 2006, Ratti ricevette la visita in camerino (a teatro stava portando in scena La parola ai giurati) della direttrice di casting Chiara Meloni, alla domanda «scusi, ma lei è di Padova?», lui rispose di sì senza esitazioni. In realtà, è nato a Rovereto il 9 agosto del 1957, ma a Canale 5, per interpretare il vicino di casa dei Cesaroni, serviva un padovano. E padovano lui fu, in un attimo. Arrivò per girare la prima puntata della seconda stagione della fiction un po’ intimidito da Claudio Amendola, Max Tortora e Antonello Fassari. Perché loro erano già I Cesaroni da un anno ed erano fraternamente, artisticamente affiatati. In più avrebbero dovuto inscenare una lite: «Aprivo un negozio proprio accanto al loro e siccome qualche lettera dell’insegna era crollata, pensavano che anche il mio fosse un bar, così mi aggredirono subito. Sul set... Poi furono deliziosi, vennero subito ad abbracciarmi, a fine riprese». Orgoglio Cesaroni, Ratti. Li adora con tutto il loro «metodo», con tutte le loro «amarezze», con tutto il loro essere burinamente pittoreschi. E dire che quando torna indietro di memoria tra i primi sforzi della sua carriera annovera tutt’altro: «È meglio essere sinceri. Fino a vent’anni sono rimasto a Rovereto. Accanto al liceo scientifico che frequentavo c’era il Teatro Comunale e io vedevo arrivare i camion da Roma. Erano quelli che montavano le scenografie e si urlavano frasi in quello che per me, allora, era un curioso idioma. Ero in quarta e quinta liceo quando capii che volevo stare lì. Non siamo un Paese di spettaori, siamo un Paese di naviganti, di poeti... Iniziai facendo il valletto in sala, che sarebbe la maschera di oggi. Mi trasferii a Milano e mi iscrissi a Lettere per far contenti i miei (mio padre era un impiegato statale, mia madre una casalinga) e per evitare la naja. Diedi solo cinque esami, tutti scelti tra i complemantari. In realtà stavo a Milano perché avevo cinema e teatri a portata di mano, con spettacoli a tutte le ore. Nel ’77 mi iscrissi all’Accademia dei Filodrammatici. Ebbi come insegnante Ernesto Calindri che amava insistere sulla “leggerezza”, un concetto che mi tengo caro ancora oggi. Intendeva che quando dici una battuta, non puoi sottolineare tutto, devi scegliere di far emeregere qualcosa. Un po’ il “buttato via” di Gianrico Tedeschi, altro maestro fondamentale». Insomma, tra gli ’80 e il 2005, si sono messi a scorrere venticinque anni in cui, nella vita di Ratto, c’è stato un po’ di tutto: fiction (da Casa Vianello a Finalmente soli e a ottobre lo vedremo in La ladra con la Pivetti), programmi tv (da Grand Hotel ad Artù, a Per un pugno di libri), molto teatro (con Montagnani, Scaccia, Lavia, Gassman jr) e cinema (Colpo d’occhio). Alla fine si è fatto pure la naja ed è stata benedetta. Perché è stato un suo amico conosciuto in quei mesi a presentargli, anni dopo, sua moglie.

Oggi si diverte per come lo appellano al mercato, ma se gli si chiede cosa gli manchi, torna sempre al teatro «che è quel posto illuminato, che sta a tre metri da terra, con tutti gli altri sotto. Al buio».
(1. Continua)

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