Gianni Celati: "Straniero di questa cultura"

Lo scrittore vive da 25 anni all’estero: Stati Uniti, Francia, Africa e Inghilterra. Perché non sopporta gli intellettuali che sgomitano per il potere e gli autori "quotati" come in un listino di Borsa

Gianni Celati: "Straniero di questa cultura"

Ai tempi delle più furibonde liti e dei più cocciuti silenzi tra lui e sua madre, Samuel Beckett si teneva lontano da casa facendo lunghe camminate per i sentieri intorno a Dublino, una bottiglia di stout a sformare le tasche del cappotto verde e nelle orecchie le urla materne che si confondevano con quelle dei gabbiani. Così per tutto il giorno. La sua - e lo restò per la vita, anche dopo che abbandonò l’Irlanda solo e senza voltarsi indietro - è quella particolare «camminata nel paesaggio» tipica del Novecento: nervosa, vitale, disperata, di rabbia e amore mescolati senza riserbo.

Allampanato come Beckett, come lui amante viscerale e nascosto della propria terra, e di Buster Keaton, Gianni Celati è uno scrittore che molto ha camminato: sulla pagina come per le strade secondarie della sua pianura Padana, e poi degli Stati Uniti, della Francia, dell’Africa. «È difficile non sentirsi stranieri» si legge nella prima pagina del suo libro più importante, Verso la foce. Ora vive a Brighton, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Sta portando a termine per conto di Einaudi una nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce: «Sono a quasi il 40 per cento del libro», ci racconta. «Eccetto per i periodi di insegnamento universitario, ho sempre vissuto di scrittura, traduzioni, collaborazioni editoriali, lavori di questo tipo. Non mi riuscì però di mantenermi collaborando ai giornali. Ad ogni modo, quest’anno faccio i 72».

Da molto è stabilmente lontano dall’Italia?
«Ormai venticinque anni. Me ne sono andato per stare lontano da tutte quelle frenesie “culturali” a vuoto che mi circondavano. A un certo punto mi sono ritrovato senza Italo Calvino, senza il suo sostegno, e pensavo che non avrei più scritto niente. Una mattina, di colpo, ho dato le dimissioni dall’università di Bologna. Sono andato in Normandia a insegnare letterature comparate e poi alla Brown University, nel Rhode Island. Infine mia moglie ha scovato questo mutuo per metter su casa a Brighton».

Opprimeva così tanto il clima del Belpaese?
«Sì, c’è un peso specifico ufficiale della cosiddetta “cultura”, che in Italia è più grave che altrove. Ossia: il vecchio motto “sapere è potere” in Italia produce una competizione a forza di sgomitate verso il puro potere, l’occupazione di posti, e diciamolo pure: quel tipo di massoneria creato dalla sinistra».

Come sono cambiate le cose oggi? Ogni tanto lei scende in Italia per degli incontri... Che cosa trova?
«Più che altro vengo a fare delle letture. Mi trovo bene soprattutto con un pubblico ridotto. Per leggere e ascoltare bene ci vuole raccoglimento. La gente che ha fretta di venire al dunque non mi starà mai ad ascoltare fino in fondo, quando ad esempio leggo Ariosto, Dante o Delfini. Bisogna evitare che la gente prenda ciò che leggi come spettacolo di tipo televisivo».

Ma che cosa è o dovrebbe essere la cultura?
«La “cultura” è per lo più fatta di parole di cui ci si riempie la bocca, e a un certo punto bisogna disintossicarsi da tutti i frasari che ti arrivano nelle orecchie. Ho abitato a lungo in Africa. Da loro la parola “cultura” è intraducibile. È l’insieme di tutte quelle attività pratiche e banali, abitudinarie, che ci tengono in piedi. Il tale è di quel villaggio, coltiva quel campo, si comporta secondo l’età e la posizione nella famiglia o nel clan. Questa è la cultura: nessun grande schema di spiegazione del mondo, a parte le mitologie sull’origine, quelle dei Dogon o dei Peul... Noi, invece, svalutiamo la loro vita e parliamo di “cultura”, dimenticando che la banalità è il rovescio della cultura. La cultura in sé, quella che si vende e si mette sul mercato, è già staccata dal quotidiano e dalla dignità delle cose. È già in un listino di Borsa, un fenomeno bancario, dove gli autori si comprano e si vendono come i calciatori».

Eretico. Sabotatore del sistema. Isolato cultore dell’isolamento.
«Non ho nessuna voglia di dare questa impressione. Dico solo che si pubblicano un sacco di libri, per lo più invenduti e invendibili, e questi sono cose per far figura, come i vestiti. Come ci sono i vestiti industriali, così ormai in tutto il mondo prevale la forma stagnante, fatta di trucchi, falsa e spettacolare, del romanzo industriale».

Ci sono però delle sacche di resistenza.
«Non credo che si possa metterla in termini da guerriglia. Leggere e scrivere sono attività che sorgono da legami di amicizia. Senza amicizia tutto diventa una mossa per fare dei “colpi gobbi”, come dice il mio amico Ermanno Cavazzoni. Dunque si tratta di riuscire a parlarsi, senza pensare al successo, ai colpi gobbi, ma intonando le nostre orecchie o i nostri pensieri su qualcosa che ci porta avanti col pensiero, con le fantasticherie, verso ciò che non è ancora schiavizzato o privatizzato».

Ma cosa si è perso?
«All’inizio dei Settanta abitavo negli Stati Uniti. Di sera andavo a mangiare in una casa di contadini vicino al campus. Alla fine del decennio, ho visto che molti dei vecchi frequentatori di quel posto adesso si vestivano “bene”. Ma con vestiti che non gli stavano addosso, soprattutto alle donne. Quei prêt-à-porter sembravano scafandri di lusso. Si vedeva che qualcosa era andato perso, in quel decennio fatidico: tutti erano più acculturati, ma meno visionari. Allo stesso modo si perde la sensibilità al paesaggio».

Quel paesaggio in Italia così oltraggiato...
«Ho fatto un film su questo, Visioni di case che crollano. Tutte le case in abbandono che troviamo nelle nostre campagne ci insegnano molto, sulla profondità del tempo, sull’invecchiamento. E sostituirle con case nuove è come fare una plastica facciale. Oggi non si riesce più ad andare in ufficio con la solita faccia, no? Ormai l’invecchiamento è diventato come uno stigma negativo per uomini e cose. E anche qui l’Africa insegna qualcosa, perché l’invecchiamento è visto in modo completamente diverso».

Veniamo ai «Costumi degli italiani», i suoi due ultimi libri.
«Raccolte di raccontini, piccole cose che scrivevo già dagli anni Settanta, la sera, senza progetto, per tenermi compagnia. Non è un satira su vizi e virtù degli italiani. Sono libri dove c’è un modo calmo di guardare e sentire. Sono libri affettuosi».

Affettuosi?
«Non vuol dire che scrivo cose sentimentali. Voglio dire, insegnamento di Heidegger, che ogni pensiero è una proiezione sull’onda dell’angoscia e del suo contrario, e questo è lo stato dell’affezione. È lo stato, per esempio, di Leopardi quando scriveva il Discorso sui costumi degli italiani, che non è un’analisi offensiva. Nemmeno le mie lo sono. Credo che il punto in cui comprendiamo le cose è quello in cui rimaniamo perplessi davanti ad esse. Spero che i miei Costumi degli italiani mettano il lettore in quella situazione di perplessità dove viene fuori qualcosa da ridere, ma anche da pensare, come quando nella vita davanti a qualcosa ci si sente al tempo stesso affettuosi o perplessi».

Lei prova nostalgia?
«Per niente e nessun luogo particolare. Le cose vanno così: si sprofonda in qualcosa di insopportabile, ma poi c’è un ritorno, una ripetizione, di ciò che è caduto nell’oblio. Giacometti diceva che lo spazio non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che viene dal dentro della materia trattata, come la materia delle sue statue. Ne parlerò in un corso a Zurigo quest’inverno.

Se c’è qualcosa che ritorna è perché si è sottratto alle malizie, all’ansia del successo, alla pubblicità d’assalto. Lo spazio non è fatto di metri cubi d’aria, ma di moti di integrazione. Penso a quel bellissimo libretto di Kierkegaard, La ripetizione, dove dice che questa del ritorno e riapertura è la filosofia dell’avvenire».

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