Il Giappone studia la guerra per fermare la Cina

Esaminati i piani per fermare un attacco cinese a Okinawa. Per la prima volta si evoca l'intervento giapponese in un conflitto per difendere Taiwan. Il governo Abe dopo l'istituzione del ministero della Difesa, entro gennaio modificherà la costituzione per accrescere il ruolo delle forze armate

Il Giappone studia la guerra per fermare la Cina

Tokyo - Giappone e Stati Uniti stanno considerando piani congiunti operativi delle loro forze in uno scenario in cui, nel quadro di una crisi per Taiwan, la Cina potrebbe attaccare l’isola di Okinawa, la più importante di quelle meridionali dell’arcipelago, sede di una grande base americana. Lo rivela l’agenzia Kyodo, vicina agli ambienti ministeriali, precisando che ciò corrisponde ai voleri del premier, Shinzo Abe. Citando fonti governative e americane, essa afferma che a febbraio i due Paesi metteranno a punto il ruolo delle rispettive forze nell’ipotesi di situazioni critiche in rapporto alla Cina. La notizia ha suscitato subito la reazione di Pechino, che ha espresso «grave preoccupazione», ammonendo che «Taiwan è un’inseparabile parte della Cina», e che «Giappone e Stati Uniti debbono rispettare e fermamente aderire alla loro politica di una sola Cina».
Nel 1972 con la visita di Nixon, e nel 1979 con l’inizio dei rapporti diplomatici, gli Stati Uniti hanno riconosciuto Taiwan come «parte della Cina», auspicando che la questione sia risolta in modo pacifico; lo stesso ha fatto Tokyo nello stabilire nel 1972 relazioni diplomatiche con Pechino. Sull’isola, che si definisce «Repubblica di Cina», sono sorte negli ultimi anni aspirazioni a proclamarsi «Repubblica di Taiwan», smettendo la finzione di unica Cina, impersonate dall’attuale presidente, Chen Shui-bian, che le ha riecheggiate a Capodanno suscitando l’ira di Pechino. Questa considera Taiwan un problema interno, ammonendo contro interferenze. Gli Stati Uniti hanno sempre ribadito l’obbligo di fornire a Taiwan armamenti difensivi, con implicito impegno a sua difesa: nel luglio 1995, quando la Cina effettuò manovre militari davanti all’isola, Bill Clinton dispiegò davanti a Taiwan la Flotta del Pacifico.
L’attore nuovo in questo quadro è Tokyo, che nel rafforzamento dell’alleanza con Washington ha accresciuto il ruolo delle proprie forze armate. Vincolata al pacifismo dalla Costituzione imposta dagli Stati Uniti nel 1947, Tokyo costituì negli anni Cinquanta forze di autodifesa, il cui compito ha avuto una crescente espansione. Il concetto di autodifesa è stato esteso alle vie marittime, in teoria fino allo stretto di Malacca, vitale per il Giappone. Nel 1991, per la guerra del Golfo, Tokyo inviò agli Stati Uniti dieci miliardi di dollari, ma non mandò neanche un infermiere. Reparti giapponesi sono ora invece stati dispiegati in Afghanistan e in Irak, mentre secondo gli accordi le forze nipponiche daranno sostegno operativo e logistico agli americani «in caso di crisi nella regione»: formula volutamente vaga, ma che tutti hanno sempre inteso come inclusiva di Taiwan in caso di attacco dalla Cina popolare.
La vaghezza adesso evapora, rivelando preoccupazioni americane e giapponesi non tanto per Taiwan in sé, quanto per la crescita economica e militare di Pechino, in rapporto alla quale Washington punta a fare del Giappone la sua Gran Bretagna in Asia. A questo scopo vede con favore il cambiamento della Costituzione, per la quale il premier Abe ha annunciato l’avvio delle procedure entro gennaio, mentre la Cina aveva anticipatamente evocato pericoli di militarismo. Tra i due Paesi è un alternarsi di pantomime e moniti dopo cinque anni di gelo politico. Malgrado vigorosi scambi commerciali, si rafforzano reciproci sospetti e rivalità di fondo negli assetti regionali. Per la prima volta dalla sua modernizzazione a metà Ottocento, il Giappone sente insidiato il suo primato nell’area dalla Cina, vista anche come minaccia; Pechino a sua volta vede nel Giappone e nella sua alleanza con gli Stati Uniti un intralcio alla sua proiezione di potenza.
A differenza del predecessore Junichiro Koizumi, Abe non è andato a Capodanno in visita al tempio in cui sono onorati i caduti, tra cui i 14 impiccati nella Norimberga asiatica, pur avendolo fatto in passato da segretario del Gabinetto. È un segnale a Pechino che, con le due Coree, considerando tali visite un’esaltazione del militarismo, per cinque anni non ha voluto avere incontri con Koizumi. Abe ha certo agito d’intesa con gli americani, contrari a inutili sfide. Ma con l’annuncio sulla Costituzione, Tokyo ha violato un altro tabù, dopo l’affermazione di potersi dotare del nucleare e l’elevazione dell’agenzia di Difesa a ministero vero e proprio.
Abe ha anche ribadito l’impegno per «una relazione strategica con la Cina basata sulla reciproca fiducia», in linea col gesto distensivo compiuto appena si è insediato, quando per il suo primo viaggio all’estero è andato alla Città Proibita, invece che alla Casa Bianca come tradizione. Benché egli non sia molto diverso da Koizumi, anzi forse più determinato, Pechino ha esaltato la visita come grande rilancio delle relazioni. In questo scenario si inserisce la Corea del Nord (sfuggita al controllo cinese), che con la sua atomica e i suoi missili ha fornito l’opportunità a Tokyo di uscire dalla passività. I giapponesi stanno infatti realizzando un sistema antimissile, ma discutono se autodifesa significhi anche colpire preventivamente. Si parla sempre di Corea del Nord, ma il pensiero è alla Cina, ora apertamente nominata nello scenario taiwanese.
Pechino avverte che «le minacce alla sicurezza sono maggiori nella regione che in altre parti del mondo», avanza il sospetto che Tokyo coltivi «sogni di grandezza». Ma non solo. La Cina, affermando che i problemi tra i due Paesi (oltre che dalla storia) sorgono ora «dallo sviluppo e dal declino della rispettiva potenza», esalta il proprio rafforzamento militare in rapporto alle sue «responsabilità di grande potenza».

Insomma, un esplicito monito al Giappone a «riconoscere i diritti regionali della Cina e a non farsi intrappolare in una rivalità strategica». Una Cina senza rivali in Asia: proprio quel che Tokyo e Washington, e non solo loro, non vogliono.

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