«La gioventù francese? Scende in piazza per fermare il futuro»

I politologi: «Per il posto fisso sono pronti a tutto». E gli Usa avvertono i turisti diretti in Francia

Marcello Foa

Qualche anno fa sceglievano Parigi, perché ai loro occhi era il centro del mondo o perlomeno l’alternativa più credibile al modello americano. La Sorbona, Science-Po, l’universalismo, l’ammirazione per una cultura capace di conciliare libertà individuale e giustizia sociale. Si chiamavano Karim, Ducla, Hammadi; venivano qui a studiare e tornavano a casa - nel Maghreb, nel Sud-Est Asiatico, in Senegal - portando con sé il seme della modernità e un’ammirazione sconfinata per la vecchia eppur grande Francia.
Anche oggi i Karim, i Ducla, gli Hammadi vengono a Parigi a perfezionare la loro formazione accademica, ma i ruoli sono invertiti. Quei ragazzi si chiedono per quale ragione i loro coetanei francesi si oppongano con tanta veemenza a una regola, quella della liberalizzazione del mercato del lavoro, per di più limitata a soli due anni, che il resto del mondo accetta senza discutere. Non capiscono come a 25 anni la maggior parte di loro non abbia altra ambizione che «un posto sicuro». Tentano di spiegare che non si possono pretendere nuovi posti di lavoro se non si creano le premesse per crearli. Ma poi lasciano perdere. Nessuno li ascolta. E tornano in patria disillusi ma al contempo riconfortati: sanno che la globalizzazione sta rimescolando le carte più in fretta del previsto. E che loro non sono più dalla parte dei perdenti.
Sbaglia chi vede nelle manifestazioni delle ultime settimane i germi di un nuovo Sessantotto. Quello era un movimento libertario, anticonformista, ribelle nei confronti di una società ancorata alle logiche e alle rassicuranti certezze borghesi.
Gli studenti di oggi sono l’antitesi di quelli di ieri. Non vogliono scardinare l’ordine sociale, ma preservarlo. Sono ansiosi, insicuri, fragili. Hanno vissuto in una società che dalla fine della Seconda guerra mondiale ha garantito a tutti la possibilità di un’ascesa sociale e di un benessere che grazie allo Stato assistenziale si è esteso alle fasce più disagiate della popolazione. Ma ora si rendono conto che il loro percorso potrebbe essere inverso rispetto a quello dei loro genitori e dei loro nonni. Che rischiano di morire poveri. È la rivoluzione delle classi medie. E non va sottovalutata, perché il disagio che oggi spinge i francesi nelle piazze è identico a quello dei tedeschi e di noi italiani, i tre grandi malati dell’Unione europea. E, proprio ieri, il dipartimento di Stato Usa ha messo in guardia i turisti americani diretti in Francia.
«Paghiamo le conseguenze di trent’anni di immobilismo delle nostre classi politiche - spiega il politologo Nicolas Baverez, autore del saggio Francia, il declino -. Certo, i tre Paesi presentano caratteristiche differenti. Berlino è federalista, Parigi centralista e le dinamiche italiane sia in campo economico - per l’enorme incidenza del lavoro nero - sia in quello politico - per il continuo travaglio alla ricerca della stabilità - rendono unico il vostro Paese. Ma le aspettative e le logiche sociali generate dalle riforme del dopoguerra sono simili». Logiche che oggi producono effetti paradossali.
«Le leggi sul lavoro sono state create negli Anni Sessanta e negli anni Settanta quando il problema non era di trovare un impiego ma di scongiurare abusi e ingiustizie nelle imprese». Poi l’economia si è trasformata, passando dall’industria al terziario, ma le regole non sono state cambiate. E il mercato del lavoro si è ingessato: sempre meno assunzioni a tempo indeterminato, sempre più quelle a termine. Si sono creati due mondi: uno rigido e chiuso proprio perché ipertutelato, l’altro precario e spesso mal pagato per compensare l'inflessibilità del primo.
«L’aspetto più assurdo della rivolta di questi giorni è che, rifiutando la liberalizzazione, i giovani non fanno che protrarre il sistema che impedisce loro di trovare una collocazione stabile nel mondo del lavoro», aggiunge Baverez, che non nasconde le sue inclinazioni liberali: secondo lui, un mercato privo di vincoli consentirebbe maggior mobilità e meritocrazia.
«Oggi prevale la diffidenza - spiega un altro brillante politologo, Gil Delannoi -. Tra un posto meglio remunerato ma rischioso e uno meno soddisfacente ma a tempo indeterminato il 70 per cento dei giovani preferisce il secondo. E per ottenerlo sono disposti ad aspettare anche tre-quattro anni. Il problema è che tutto il sistema spinge in questa direzione. Di globalizzazione si parla da dieci anni, ma la gente non se n’è mai davvero interessata». Una società sulla difensiva, sempre più ripiegata su se stessa. Ma come rimediare? Il modello anglosassone non è replicabile nell’Europa continentale: ogni volta che si parla di liberismo si alzano le barricate, non a caso la Merkel ha rischiato di perdere le elezioni per aver proposto la flat tax. C’è chi guarda a nord, alla Danimarca che ha inventato la cosiddetta flexicurity, imitata dalla Svezia: licenziamenti liberi ma accompagnati da generose tutele sociali e piani mirati per aiutare il reinserimento. «A Copenaghen la disoccupazione non è un trauma, ma si illude chi pensa di trasferire la formula in altri Paesi - spiega Andrea Gallina, direttore del centro studi Federico Caffè dell’università Roskilde -. Questo è il risultato di un processo iniziato trent’anni fa e imperniato su un senso civico esemplare e una fortissima solidarietà comunitaria». Il lavoro nero non esiste, i conti pubblici sono a posto. Ma bisogna leggere attentamente le cifre: la tasse sono altissime e «se si considera il numero di danesi impegnati in corsi di riqualificazione e di addestramento, la percentuale dei senza lavoro risulta molto più alta di quella dichiarata, non lontana dal 15-20 per cento», rileva Gallina. E ancora: è un Paese spiccatamente neokeynesiano, che grazie alle commesse pubbliche mantiene artificialmente in vita migliaia di aziende locali. E soprattutto è piccolo, come gli altri Stati che ce la fanno: l’Olanda, l’Austria, la Norvegia, quelli dell’Est - la Repubblica Ceca, l’Ungheria, i Baltici - che negli ultimi cinquant’anni hanno conosciuto non gli agi della società dei consumi, ma le asprezze del comunismo e che mantengono la capacità di adattamento di chi è ripartito da zero.

Modelli non imitabili dai giganti in declino; certo non da una Francia troppo concentrata su se stessa, né da un’Italia oberata dal debito pubblico ed eternamente dispersiva. La globalizzazione è qui e avanza; ignorarla non è una soluzione.
marcello.foa@ilgiornale.it

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