Per molti appassionati di storia militare l'ultima carica di cavalleria dell'esercito italiano, e forse dell'intera storia bellica mondiale, fu quella del «Savoia» il 24 agosto 1942 a Isbuscenskij in Russia. Un attacco alla sciabola che permise di rompere l'accerchiamento dei nemici ed evitare una disfatta. Un misto di capacità di manovra, tattica ed eroismo da far esclamare agli sbalorditi tedeschi, solitamente parchi di complimenti, «Noi queste cose non sappiamo più farle». In realtà l'ultima battaglia di un reggimento a cavallo si svolse un paio di mesi dopo, il 17 settembre, a Poloj in Jugoslavia. Un attacco reso necessario da una serie di errori dell'alto comando, che preferirono per questo far cadere una sorta di «velo d'oblio» sul sacrificio dei cavalleggeri del 14° Cavalleggeri d'Alessandria.
La cavalleria da sempre è stata l'arma «nobile» per eccellenza anche perché solo l'aristocrazia poteva permettersi il «lusso» di possedere, mantenere e governare un cavallo, con tutti gli annessi e connessi. Tutti gli altri a piedi, con spadoni, scudi, picche e lance. A ingrossare le fila della cavalleria difatti erano tutti i figli «cadetti» di qualche famiglia che, dopo aver lasciato al primo genito titolo e terre, mandava gli altri a cercar fortuna per il mondo. Con l'arrivo delle armi da fuoco, l'uso della cavalleria perse gradualmente importanza nella tattica militare. Anche se unità di cavalleggeri rimasero inquadrate in tutti gli eserciti, ma con funzioni di pattugliamento e perlustrazione più che come reparti combattenti veri e propri.
Formazioni di cavalleria furono dunque impiegate durante la Seconda Guerra Mondiale dal Regio esercito sui vari fronti, soprattutto le impervie montagne jugoslave o greche e lo sterminate steppe russe, territori pieni di ostacoli insormontabili ai mezzi meccanici. Venendo talvolta impegnate in azioni belliche. Come a Isbuscenskij quando i 700 uomini del «Savoia» furono circondati da 2.500 soldati siberiani. Alle prime fucilate, il colonnello Alessandro Bezzoni Cazzago ordinò all'alfiere di dispiegare la bandiera del reggimento e partì la carica. I sovietici vennero spazzati via e la battaglia si concluse con 32 morti e 52 feriti tra gli italiani contro i 150 morti, 300 feriti e 600 prigionieri tra i siberiani. L'episodio ebbe un'ampia eco in Italia: il reggimento ebbe la medaglia d'oro allo stendardo, due medaglie d'oro alla memoria, due ordini militari di Savoia, 54 medaglie d'argento, 50 medaglie di bronzo, 49 croci di guerra, diverse promozioni sul campo.
Isbuscenskij passò alla storia come l'ultima e la più gloriosa carica del nostro esercito, oscurando quella avvenuta un paio di mesi dopo in Jugoslavia. Per la semplice ragione che la battaglia di Poloj fu costellata da una serie di incredibili errori tattici da parte dei comandanti della Divisione Celere Eugenio di Savoia, presso la quale era inquadrato il 14º Cavalleggeri d'Alessandria agli ordini del colonnello Mario Ajmone Cat. A Poloj infatti l'intera divisione stava per cadere in un agguato dell'Armata popolare di liberazione guidata da Tito. Una serie di ordini contradditori, avanzate, attese e ritirate, stavano per far pendere la bilancia dalla parte degli jugoslavi fino a quando tutti i 760 uomini si lanciarono all'attacco delle fanterie nemiche che stavano per chiudere gli italiani in una sacca. La carica mise in fuga i nemici, anche se costò cara: 129 morti e 70 feriti. L'eroico comportamento del reggimento valse 12 Medaglie d'Argento al Valor Militare, senza contare quelle di Bronzo e le Croci di Guerra. Le perdite tra gli jugoslavi non furono mai note, ma sembra siano state di gran lunga superiori. Un atto di eroismo commentato in tono ammirato dallo stesso Tito: «Abbiamo avuto l'onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria».
Ma come detto questa battaglia non ebbe il seguito di quella combattuta sul fronte russo: soffermarsi troppo avrebbe significato esporre i comandanti della «Eugenia di Savoia» a severe critiche per i tanti errori tattici. Molto meglio farla cadere nel dimenticatoio e tenersi cara la carica di Isbuscenskij come l'ultima, gloriosa, vincente e priva di errori tattici, della cavalleria italiana.
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