Grande show, piccola musica. L'Eurovision è da rifondare

Oltre Angelina Mango (settima) poche altre sorprese di qualità. Era una vetrina pop, rischia di ridursi a palco di propaganda

Grande show, piccola musica. L'Eurovision è da rifondare
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Intanto complimenti. Più che un mega show, l'Eurovision Song Contest è un cronometro visto che spacca il minuto e anche la finale di sabato, con 25 esibizioni e tutta la trafila delle votazioni si è chiusa all'ora prevista, roba da record.

Altro che Sanremo.

Però la puntualità non basta. Essendo una gara di canzoni, ci dovrebbero essere canzoni che meritino la gara. In questa edizione, diciamo la verità, di bei brani se ne sono ascoltati pochi, forse pochissimi e tra questi, senza campanilismo, c'è stata La noia di Angelina Mango, che ha fatto ballare la Malmö Arena con gli ingredienti giusti: presenza scenica, coreografia, costumi, intonazione e un brano che il pubblico europeo è riuscito a decifrare e fare proprio. Il pop in fondo è questo, arrivare al maggior numero di persone senza scioccarle o farsi deridere. Il francese Slimane, se non avesse abusato della voce, sarebbe stato originale, l'inglese Olly Alexander forse meritava di più e gli spagnoli Nebulossa fanno molto estate e spiaggia e buona estate.

Ma tutto il resto tutto il resto è noia, spesso total.

La cipriota Kalipsis arriva da decenni indietro, l'irlandese Bambie Thug sarebbe stata meglio a un concerto black metal oppure a una sfida tra performance artist, mentre gli estoni 5MIINUST x Puuluup sono talmente kitsch che alla Corrida di Corrado li avrebbero spernacchiati senza pietà. Quindi dal punto di vista musicale, l'Eurovision non sfonda. Nonostante gli ascolti (36% di share con 5 milioni e 340mila telespettatori su Raiuno) questo spettacolo non è attrattivo per qualità musicale e questa, direte voi, non è una novità. A parte poche eccezioni, non ci sono mai stati picchi creativi. Prima era soprattutto folcloristico. Ora è tutto il resto, ma non musicale. Alla sessantottesima edizione, dopo aver cambiato denominazione ed essersi dato una grande spolverata di attualità, l'Eurovision è forse entrato nelle secche della ripetitività o, ancora peggio, si sta qualificando come piattaforma per il lancio di messaggi o rivendicazioni, più o meno condivisibili, che, però, dovrebbero essere accompagnate da strutture musicali e arrangiamenti convincenti, non da oratorio (con tutto il rispetto per gli oratori).

Ci vorrebbe una rifondazione. Sicuramente una selezione più vincente dei brani che rappresentano ciascun Paese e, nel complesso, tutta la musica continentale. D'accordo, abbiamo tutti gusti e sensibilità e storie diverse ma, per capirci, qui da noi We will Rave dell'austriaca Kaleen non avrebbe passato neanche le selezioni di Sanremo Giovani, figurarsi se merita una platea continentale.

E poi lo spostamento dell'attenzione dalla performance musicale a tutto il resto ha amplificato l'attenzione per temi politici o di drammatica attualità. Si è visto con la Russia bandita da Eurovision dopo l'invasione dell'Ucraina. E, per altri versi, si è visto in modo spettacolare anche questa volta, con le contestazioni all'israeliana Eden Golan, obbligata a evitare appuntamenti pubblici e a girare con le guardie del corpo come un boss dei narcos. Persino Greta Thunberg si è fatta fermare durante le proteste a favore della Palestina.

Se l'eroina ambientalista contesta una cantante israeliana a un festival di canzoni, forse si è perso di vista l'obiettivo dell'Eurovision, il cui motto era «uniti dalla musica» ma alla fine ha solo aumentato le divisioni.

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