Il grido del Ciad stretto tra siccità e Boko Haram: "Stiamo morendo"

Una strage tra la popolazione, in ospedale bambini malnutriti e feriti senza cure I terroristi rapiscono donne e bambine e costringono gli uomini a combattere

Il grido del Ciad stretto tra siccità e Boko Haram: "Stiamo morendo"

Il Ciad, ex colonia francese, è divenuto indipendente nel 1960 e, dalla proclamazione della nascita della Repubblica del Ciad a oggi, la storia della nazione africana è stata caratterizzata da governi autocratici e continue guerre. E oggi la nazione, cerniera tra il nord Africa e l'Africa subsahariana, sta affrontando anche il più complesso dramma umanitario della nostra contemporaneità: la desertificazione del lago Ciad, la cui superficie si è ridotta del 90% rispetto gli ani '60 a causa del cambiamento climatico e della costruzione di dighe sui fiumi immissari, e il terrorismo islamista di Boko Haram si sono uniti facendo della regione lacustre una delle aree più vessate al mondo: stando ai dati dell'Ocha, il disastro umanitario ha causato oltre 2,3 milioni di profughi, sono dieci milioni le persone che vivono nel bisogno e 500mila i bambini che soffrono di malnutrizione.

Una luce inclemente abbaglia e disorienta lungo la strada che conduce da N'Djamena, la capitale, a Bol, il principale centro rivierasco: ciò che è umano è nemico a questa terra. L'acqua è un miracolo e la sete una costante, il cibo un miraggio e la fame una prerogativa, il vuoto una prigione senza possibilità di fuga e la solitudine una condanna senza abbuoni di pena. E poi il vento: violenza pura, che rende folli e aggredisce chiunque incontri sul suo cammino, stringendosi alla gola come un cappio del bisogno.

Attraversando il Sahara si incontrano solo piccoli villaggi di terra; silenzio assoluto, necropoli dei viventi. Alcuni arbusti secchi e qualche dromedario, carcasse di vacche e capre e pochi, pochissimi uomini. Sono genti, quelle che si incrociano, che trascinano corpi ossuti e si muovono come ombre. E basta osservare loro per comprendere la crisi che sta martoriando quest'umanità.

Il viaggio nel deserto si conclude a Bol dove è presente l'unico ospedale di tutta la regione. Ed è da qua che inizia la discesa nell'abisso.

«Non abbiamo media locali e non vengono neppure quelli internazionali a raccontare cosa sta succedendo. Questo è l'unico ospedale di tutta la regione e ci sono solo tre medici». A gridare la sua rabbia è il direttore generale dell'ospedale, il medico Youssuf Saleh «la popolazione sta morendo di Aids, di malnutrizione, di tubercolosi. Viviamo nella zona rossa; l'arrivo degli jihadisti di Boko Haram ha esasperato una situazione già critica. Si sta consumando un dramma lontano dagli occhi di tutti e il tempo sta per scadere: Ong, governi europei, donatori internazionali venite. Venite a vedere: la catastrofe è alle porte».

Le parole del dottore vaticinano quanto da lì a poco sta per paventarsi. Varcata la soglia del nosocomio si vedono pazienti assiepati in ogni dove, nelle camerate ormai colme e impregnate dell'odore di urina, sangue e vomito, in cortile sulla sabbia o per terra nei corridoi.

Una madre, facendo ricorso a tutte le sue forze, agita un ventaglio, cercando di lenire così il calvario della figlia, nel reparto di maternità una neonata è sdraiata tra le braccia della mamma che dopo avere partorito giace per terra e poi c'è Ousman Abakar, che ha 11 anni ed è in coma a causa delle meningite: e suo padre, seduto sul letto, gli stringe la mano e lo assiste immobile, come un asceta che affida al silenzio le urla del suo dolore.

Il cronometro della storia si è interrotto quaggiù. Gli ingranaggi si sono inceppati martellando solo l'inesorabilità della sofferenza e i campi profughi, distese di sabbia tutte uguali, sono luoghi in cui la tragedia raggiunge il suo parossismo. Celou Al Hadji ha dieci anni e zoppica per le sabbie della tendopoli di Kurfa aggrappata a delle grucce. La madre un anno fa la mandò a comprare una manciata di riso e in quel momento un kamikaze si fece esplodere. La bambina perse una gamba e oggi non va a scuola, vive sola, con la sorella più piccola e la madre che non si perdona di averla mandata quel giorno al mercato.

E altrettanto impietosa è la storia di Apsa Mohamet: ha 17 anni, vive nel campo profughi di Dar es Salaam ed è arrivata qui dopo essere stata prigioniera per due settimane degli jihadisti di Boko Haram. «Sono arrivati nel mio villaggio in Nigeria e mi hanno rapita perché ero ancora nubile e quindi volevano che divenissi una loro sposa». Incorniciata da un hijab rosa, le sue mani sono tinte di hennè e la sua voce invoca vendetta rievocando il passato. «Mi hanno tenuta segregata in una casa con altre donne. La notte poi venivano e prendevano alcune di noi. C'erano anche una madre con sua figlia. Un giorno liberarono la mamma e la figlia li supplicò, affinché la lasciassero andare con lei: loro, i Boko Haram, si opposero, la giovane insistette, allora la sgozzarono davanti a sua madre e a tutte noi».

«Sheitan, sheitan!», demoni, diavoli, così li ricordano i sopravvissuti all'orrore ma non all'incubo, perché nel campo, oggi, i traumi dettati dal ricordo non sono svaniti. Le patologie psichiatriche sono sempre più diffuse: i medici raccontano che molti tra donne e uomini non riescono più a pronunciare la parola fuoco, sono disturbati dal colore rosso e si nascondono non appena sentono un rumore improvviso. Disturbo da stress post traumatico lo chiama la scienza, «Satana» lo chiama invece la credenza popolare che riesce, a volte, a dare la dimensione del tutto in maniera più immediata ed efficace.

«La desertificazione e la mancanza di tutto sono dei fattori che alimentano le file degli irregolari. Il gruppo estremista approfitta di questo stato di indigenza assoluta per attirare a sé nuovi combattenti facendo leva sull'ignoranza e la miseria. Queste sono le principali armi a disposizione degli jihadisti». A parlare è Ahmad Yacoub presidente fondatore de il Cedpe, le Centre d'étude pour le développement et la prévention de l'extrémisme, il primo centro nato in Africa e deputato alla deradicalizzazione e alla prevenzione dell'estremismo. E per capire quando dichiarato dal presidente del centro occorre spingersi a conoscere anche l'altro, l'artigiano della tragedia, l'esecutore della violenza, il cattivo della storia. Abdoullaye Tidjani, ex soldato di Boko Haram, ha trascorso tre anni della sua vita tra gli jihadisti: «Io sono nigeriano e facevo il commerciante. Ero al lavoro quando i terroristi sono arrivati e hanno costretto me ed altri uomini a diventare dei combattenti. Chi non aderiva veniva ucciso. Mi hanno portato in un campo d'addestramento e subito è iniziata la formazione militare; mangiavo tre volte al giorno, pregavo e utilizzavo le armi e poi mi hanno mandato in battaglia. Prima di andare ad attaccare i villaggi o le postazioni dei militari ci facevano pregare e gli imam ci dicevano di uccidere perché era il volere di Allah».

L'ex ribelle islamista così prosegue: «Continuavo a vedere gente uccisa senza ragione ed è arrivato un giorno in cui mi sono domandato: perché? Da quel momento non ho desiderato altro che fuggire. Una notte durante un'azione militare sono scappato e sono arrivato a Bol. Da sette mesi sono qui e vorrei ritornare alla mia vita di sempre; ma come si può tornare indietro dopo tutto questo orrore?».

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