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Se la Corte condanna i valori di Israele

L'incriminazione della Corte Internazionale produce una situazione grottesca: le Cancellerie al lavoro per una soluzione del conflitto che dovessero incontrare Netanyahu si troverebbero davanti un latitante da arrestare

Se la Corte condanna i valori di Israele

«I mandati di arresto non portano la pace». Ha ragione da vendere il Ministro degli Esteri Antonio Tajani che si trova in prima fila a gestire l'improvvida richiesta di manette che arriva dal Tribunale dell'Aia nei confronti del Premier Israeliano. Un atto destinato ad aumentare la tensione proprio mentre le bombe cadono anche sui militari italiani, impegnati in una difficile opera di interposizione tra combattenti per conto delle Nazioni Unite.

Sul fronte pratico l'incriminazione pronunciata dai magistrati della Corte Internazionale produce una situazione addirittura grottesca: le Cancellerie al lavoro per una soluzione del conflitto che dovessero incontrare Netanyahu non si troverebbero davanti ad un Capo di Stato con cui trattare, ma ad un latitante da arrestare. Difficile immaginare un proficuo dialogo e facile immaginare l'imbarazzo di tali faccia a faccia: come se il Ministro dell'Interno incontrasse il capo di una organizzazione criminale per trovare un onorevole compromesso sui temi dell'ordine pubblico. Ammetto di essere un partigiano dello Stato di Israele. E lo sono perché ritengo quel fazzoletto di terra un baluardo dei miei valori, l'unico lembo di quella martoriata regione in cui è radicato un sistema democratico. Libertà politiche, diritti sociali e civili, assenza di discriminazione sessuale, si incrociamo nella Knesset come nelle discoteche di Tel Aviv mentre libera scienza, ricerca e tecnologia fanno dello Stato Ebraico un esempio di economia liberale in grado di produrre benessere diffuso. Un sistema difeso quotidianamente da ragazze e ragazzi che per proteggere il loro stile di vita sono pronti da generazioni a togliere jeans e minigonna per indossare la mimetica, pur di non indossare un velo o peggio.

Per questo mi ha sempre stupito vedere il mondo progressista scendere in piazza contro gli eccessi di legittima difesa di Israele, dimenticando o peggio, talvolta inneggiando, all'impianto di valori oscurantisti e liberticidi dei suoi nemici, Hamas, Hezbollah o Iran che siano. E se stupisce che certa sinistra sia disposta a dimenticare diritti negati alle donne, persecuzione della omosessualità, assenza di democrazia pur di schierarsi contro Israele, francamente lascia ancor più perplessi la pronuncia della Corte dell'Aia.

Un Tribunale che dovrebbe rappresentare la parte «giusta» del mondo, quella che rifugge e condanna ingiustizie e tirannie, non può nascondersi dietro una applicazione meccanica del diritto, prescindendo dai valori che quel diritto dovrebbe difendere. Non può giudicare come sé tutte le parti in causa fossero dalla parte giusta della storia. Ogni tribunale internazionale è di per sé un tribunale politico: sterilizzare la necessità di prendere una posizione nascondendosi dietro formule giuridiche che rendono uguali di fronte alle legge il capo di una organizzazione terroristica estremista e oscurantista e un Primo Ministro eletto dal popolo è la resa della politica. E anche della giustizia stessa, quella basata sulla sostanza e non sulla forma. La resa insomma ad una equidistanza tra le parti non degna della nostra storia.

Vedete, l'Europa che ospita la Corte dell'Aia si fonda su un altro processo: quello di Norimberga, in cui furono giudicati e condannati i gerarchi nazisti per i loro misfatti. Quei giudici utilizzarono gli strumenti del diritto positivo per sancire una serie di valori. Sul banco degli imputati c'era chi aveva compiuto atrocità, ma soprattutto sotto processo c'era la ragione per cui quelle atrocità erano state commesse: privare l'uomo della sua umanità. Costruire un mondo senza libertà, uguaglianza, basato sulla discriminazione e sulla violenza. Anche dalla parte degli Alleati nel Secondo Conflitto Mondiale furono perpetrate alcune atrocità: come definire altrimenti le bombe incendiarie su Dresda, gli stupri di massa delle truppe coloniali a Cassino o dei Russi a Berlino dopo la caduta della città. La guerra ahimè porta con sé sempre il peggio. Tuttavia nessuno pensò mai di giudicare i misfatti delle truppe Alleate al pari di quelli dei nazifascisti. Perché? Semplice: i valori che le parti in conflitto rappresentavano: la dittatura da un lato, la libertà dall'altro. E se i valori per cui ci si batte non possono giustificare la crudeltà dei modi con cui ci si batte, è pur vero che politica e diplomazia non possono mai dimenticare nei propri giudizi le ragioni dei contendenti. Sarebbe come equiparare chi si difende con chi attacca, chi combatte per la libertà e chi per la schiavitù, chi difende l'universo di valori costruito dal coraggio e dal sangue dei nostri antenati con chi vorrebbe distruggerlo. Alla politica spetta ora il difficile compito di rimediare all'errore dei magistrati dell'Aia.

E magari al tempo stesso recuperare anche qualche sbaglio del passato, di chi ha immaginato di scaricare su un Tribunale responsabilità che sono invece dei popoli, di chi li rappresenta e rappresenta al tempo stesso i valori di una civiltà. La politica Europea non può abdicare ai propri compiti nascondendosi dietro una toga, ma deve assumersi l'onere di schierarsi, anche quando il sangue versato rende la scelta dolorosa e impopolare.

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