Il guru fa visita al cardinale e il senso della vita è servito

I "dialoghi" di Scalfari e Martini su fede e giustizia puntano alla riflessione filosofica, ma ricordano un po’ troppo le chiacchiere da quattro amici al bar

Il guru fa visita al cardinale  e il senso della vita è servito

Non se ne può più di chiacchiere da bar spacciate per profonde lenzuolate filosofiche. Non per fastidio, ma per noia. E parecchia delusione. L’ultimo esempio è la conversazione tra un dotto giornalista e un illuminato teologo.
Tutto si può dire di Eugenio Scalfari tranne che sia un povero cristo. Non si è mai sentito un uomo qualunque. Ogni gesto, ogni parola sembra scolpita nell’immortalità. Vive, insomma, come se fosse la statua di se stesso; e ci riesce. Così se un povero cristo cerca conforto nel primo prete che passa, lui fa visita a un cardinale. Il cardinale è Carlo Maria Martini e «siede su una poltrona accanto a una finestra dalla quale si vedono un pezzo di cielo e un cipresso». L’atmosfera è manzoniana. Scalfari si racconta come un Innominato in cerca di una redenzione, Martini come Borromeo ha la mano alzata pronta per il perdono, con lo sguardo e la grandezza di chi comprende i dubbi della ragione. Monumentale. Parlano di Gesù, di fede, dell’uomo e del suo principio, di amore e giustizia, del Dio uno e trino, sottovoce, come se il tempo fosse sospeso e lo spazio rarefatto. Scalfari li chiama «dialoghi» e Repubblica li ospita in prima e poi li fa scivolare a pagina cinquanta e cinquantuno, come un cantuccio di riflessione lontano dal barbaro consumismo di un Natale non ancora abbastanza austero.
Quello che Scalfari ci sta indicando è più o meno questo: ecco di cosa parlano i grandi uomini. È la testimonianza di un frammento di civiltà prima che arrivi il buio, la notte, il grande inverno. Prendete e bevetene tutti (o perlomeno gli eletti, perché il grande direttore resta aristocratico). La delusione, per noi poveri cristi, arriva dopo. Leggi e scopri che il «senso della vita» dei due grandi uomini assomiglia a un remake dei Monty Python.
I due monumenti in effetti si interrogano sul senso della vita: chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo. Come due adolescenti invecchiati. Il cardinale chiede: lei ama gli altri? E qui ti aspetti che Scalfari tiri fuori dalla sua sapienza un pensiero immortale. Non è così. La sua risposta è: dipende. Anche se il grande direttore spreca molte più parole. «Non sempre, non del tutto. Mentirei se dicessi che amo gli altri con passione come amo alcune persone a me vicine e mentirei se dicessi che l’odio è un sentimento a me ignoto. Detesto l’ingiustizia e odio gli ingiusti. I diversi da me li tollero e in qualche caso li amo pensando che la loro diversità sia ricchezza. Ma gli ingiusti no».
Illuminante. Scalfari come tutti ama chi gli è caro, i suoi familiari, i suoi amici, come tutti non sopporta chi giudica ingiusto, tollera chi non la pensa come lui, ma per non apparire chiuso sottolinea che la diversità è ricchezza. Scalfari ci ricorda che non crede e Martini rinuncia a convertirlo, ma non esclude che la fede possa illuminarlo. Martini dice che ha letto l’ultimo libro di Scalfari e Scalfari fa sapere che ha letto tutti i libri di Martini. Martini parla di amore, ma Scalfari lo chiama eros. Martini chiama il bene carità, Scalfari lo chiama umanesimo. Il dubbio tormenta il cardinale e inorgoglisce il giornalista filosofo. Quando Scalfari sostiene che la Chiesa «forse è troppo istituzione», Martini conferma con un cenno del capo «forse è troppo istituzione». Nel discorso manca solo un «non c’è più il Natale di una volta».

Qualcuno a Repubblica deve averlo cancellato.
Il sospetto è che i dialoghi tra monumenti non andrebbero trascritti e raccontati. Ti aspetti il senso della vita e quello che resta è una chiacchierata da «quattro amici al bar». Che volevano cambiare il mondo.

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