HERR Cartoline dal Vietnam

Torna il libro che ispirò «Apocalypse Now» e «Full Metal Jacket». Nella cronaca di un giovane corrispondente di guerra, fra elicotteri che decollano e assedi a città fantasma, tutte le emozioni e i simboli della macchina bellica

«Vietnam, Vietnam, Vietnam, ci siamo stati tutti»: finisce così, con questa dichiarazione di universale correità, Dispacci, di Michael Herr, uscito nel fatidico 1968 e appena ristampato dall’editore Alet nella traduzione rivista di Margherita Bignardi (pagg. 307, euro 18) che aveva già firmato la prima versione italiana pubblicata quattordici anni fa grazie alla splendida perspicacia critica di Leonardo Mondadori.
Gli americani che da ragazzi parteciparono a quella guerra adesso sono nonni: molti vivono nelle periferie di Pittsburgh e Cheyenne, stesi sulle brandine di qualche stanza desolata con gigantesche fotografie di donne nude alle pareti, come se non riuscissero a staccarsi dalla loro gioventù segnata dalla violenza; oppure si bruciano al sole dell’Oceano Pacifico sulle piste ciclabili di Venice, a Los Angeles, simili ad atletici barboni, quasi non avessero rinunciato ad apprendere qualcosa di se stessi purtroppo destinato a restare sconosciuto; ma anche i reduci apparentemente più sereni, che la domenica pomeriggio trafficano sui barbecue fra le grida dei nipotini, di notte non possono evitare i fantasmi. Per tutti loro, avanzi poco dignitosi del sogno americano, le pagine di Michael Herr, se le abbiano lette oppure no è trascurabile dal momento che esse hanno comunque alimentato il cinema, la pubblicità e il costume, rappresentano il breviario stravolto del pellegrino esistenziale, il pendolo infuocato delle azioni compiute, la ferita sanguinante dei peccati d’omissione.
Non stiamo parlando di uno scrittore qualsiasi. Michael Herr partecipò alla sceneggiatura di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Avete presente la voce fuori campo che accompagna la discesa lungo il fiume cambogiano del capitano Willard? Be’, quel testo era opera sua. Anche il perno narrativo che Stanley Kubrick pose alla base di Full Metal Jacket deriva da Dispacci, un libro difficile perfino da spiegare.
A prima vista si tratta di una cronaca a caldo: il personaggio principale è un giovane corrispondente, al tempo stesso osservatore e protagonista delle operazioni belliche in cui sono coinvolti i suoi compagni. Tuttavia, malgrado Michael Herr si trovi a ridosso dei fatti, riesce a conquistare una distanza leggendaria rispetto alla realtà, ponendosi quale formidabile creatore di atmosfere. Il lettore di questo capolavoro, più che dall’offensiva del Tet o dall’assedio di Danang, resta coinvolto dall’emozione dei gesti, dal carisma dei marines, dalla ritualità simbolica che assumono gli scontri a fuoco.
Gli elicotteri decollano a gruppi sgranati dalla pista grigio ferro e si allontanano in direzione della foresta. Le truppe d’assalto sfoggiano una specie di sorriso isterico. In mezzo alle paludi scattano i coltelli a serramanico. Si vedono fazzoletti viola o rossi o blu legati intorno al collo e sopra al ginocchio per stringere una ferita. Ogni fante ha una scritta personalizzata incisa sull’elmetto: «Nato per uccidere», «Figlio dell’amore», «Aiuto!», «Sono un rocchettaro!» Ci sono gli assedi alle città fantasma, Hue, Tay Ninh, Dak To, diroccate e misteriose; la Saigon sconvolta e surreale della retrovia, i corpi distesi sui sedili posteriori delle jeep, le piccole prostitute vietnamite. Il ritmo di scrittura possiede l’andamento sincopato della musica rock che i neri del Bronx, i primi ad essere mandati al fronte, ascoltano affascinati per stordirsi ed entrare in azione.
Michael Herr sembra uno Stendhal disceso da Marte su questo mondo per scattare alcune diapositive poco rassicuranti sulla specie umana colta in flagrante, alla fine degli anni Sessanta del Ventesimo secolo, nelle risaie del Mekong o da qualche parte a Sud-Ovest di Khe Sanh, nelle cui inquietanti alture, percorse da cime erratiche, valli grandiose, gole coperte di jungla, i ragazzoni alti e biondi del Michigan si trasformarono, senza che nessuno glielo avesse chiesto nei modi espliciti supponibili dal regolamento militare, in ire furibonde. «Ed erano assassini. Certo che lo erano; cos’altro avrebbero dovuto essere?».
Un lirismo sfregiato. Un libro composto in apnea (il primo capitolo s’intitola «Inspirare». L’ultimo «Espirare»). Un grumo di sangue e intensità come ce ne sono pochi nella letteratura contemporanea. In ogni punto delle 288 pagine effettive senti l’energia fulminante che solo l’esperienza diretta può dare, sempre che lo stile di chi scrive riesca a comunicarne l’essenza. Per farlo occorrono, in pari grado, lucidità, equilibrio, talento, disciplina e misura. Quando nel 1984 Frederick Exley, narratore vitalista, andò a trovare Herr a Londra (il resoconto del colloquio intercorso fra i due è compreso nell’edizione di Alet) forse pensava di incontrare una specie di pazzo invasato: al contrario, vide un uomo in apparenza ordinario con moglie e figli, abituato a pranzare da McDonald’s. Il che, invece di diminuire, accresce il fascino del suo libro.
Alla fine uno si chiede: cosa ci ha voluto dire Michael Herr? Che i soldati potessero tramutarsi in bestie lo sapevamo. Che per gli Stati Uniti il Vietnam rappresentò la perdita della pretesa innocenza anche.

Ma questo scrittore mascherato da corrispondente di guerra ci ha fatto capire un’altra verità ancora più vicina a noi: la macchina bellica americana arenata in Oriente, al pari di un gigante costretto a smaltire nel fango la sbornia del suo delirio di potenza, anticipava il rischio autistico presente nella civiltà tecnologica post-novecentesca, che replica se stessa come farebbe un bambino viziato: un presagio colto appieno dai falsi eroi di Stanley Kubrick quando, nella scena conclusiva di Full Metal Jacket; cantano: «Topolin, Topolin!».

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