Marco Valle
Guyana francese. Scordate Papillon, le sue prigioni e le sue evasioni, accantonate pure i profili luccicanti dei razzi Ariane del centro spaziale di Kourou. La storia che vogliamo raccontarvi è un'altra. Ben diversa. Qui, a 15mila chilometri dall'antica patria asiatica, c'è un frammento d'Indocina coloniale coraggiosamente proiettato verso il futuro. Si tratta di Cacao e Javouhey, due borghi infilati nel cuore della giungla amazzonica divenuti un sancta sanctorum degli Hmong, uno dei popoli più fieri quanto maltrattati del Novecento. Un paradosso solo apparente. Dal 1977 la «Collectivité Territoriale» ospita alcune migliaia di questi coriacei montanari laotiani in fuga dalla loro terra e dal comunismo. La storia della loro diaspora è tragica quanto emblematica.
Tutto ebbe inizio alla fine della Seconda guerra mondiale quando il Laos, allora protettorato francese, venne investito dalla guerra scatenata nel vicino Vietnam da Ho Chi Minh e Giap. Approfittando, nel marzo 1945, del crollo dell'amministrazione coloniale francese e a settembre della sconfitta degli occupanti giapponesi, il movimento vietminh proclamò unilateralmente l'indipendenza; il governo di Parigi si oppose e, dopo inutili mediazioni, scelse la via delle armi per riconquistare i suoi possedimenti asiatici. Un'impresa impossibile che si trasformò in una lunga tragedia che si concluse nel maggio 1954 con la disfatta, gloriosa e amarissima, di Dien Bien Phu.
Nel corso del conflitto, di fronte alla tenacia delle «termiti rosse» di Giap, i francesi si convinsero che l'unica possibilità di vittoria stava nell'«ingiallimento» dello scontro con il coinvolgimento dei segmenti anticomunisti indocinesi e delle minoranze etniche storicamente ostili ai vietnamiti. Tra tutti spiccavano gli Hmong, un popolo guerriero, originario della Cina sud-occidentale e sparpagliato tra le montagne del Sud-Est asiatico continentale. Nel Laos erano circa un milione concentrati nella parte settentrionale del Paese, a cavallo dello strategico confine con il Vietnam. Gli Hmong, fiduciosi nelle promesse transalpine (l'autonomia, forse l'indipendenza), fornirono ottimi combattenti ai GCMA (groupement de commandos mixtes aéroportés); guidati da giovani ufficiali affascinati dalla «guerra rivoluzionaria», i miliziani s'infiltrarono dietro le linee viet dando vita a un'efficace controguerriglia. Gesta che ispirarono Pierre Schoendoerffer per 317 sezione, il grande romanzo sulla guerra francese d'Indocina (ripubblicato dall'editore Italia Storica di Genova).
Dopo il ritiro di Parigi fu la volta di Washington. Dal 1957 la Cia intraprese nel neutrale Laos una serie di operazioni coperte contro i nordvietnamiti e i loro alleati comunisti del Pathet Lao. Fu l'inizio di una spietata guerra civile che si protrasse per diciott'anni. Negli anni gli statunitensi impiegarono massicciamente i bellicosi Hmong, finanziando generosamente le milizie di Vang Pao. Vero e proprio signore della guerra, il «generalissimo» costituì un mini Stato con capitale Long Chen, una specie di Tortuga crocevia di ogni sorta di traffico, oppio ed eroina compresi. Una curiosità. Per rifornire la piccola armata spersa tra le montagne, gli 007 statunitensi utilizzarono i piloti di Air America, una compagnia specializzata in spericolate missioni top secret; nel 1990 la vicenda è diventata un film Air America, appunto con Mel Gibson
Nel 1975 il collasso americano segnò la fine di ogni speranza per la piccola nazione. Considerati dalla Repubblica popolare del Laos una massa di traditori, agli Hmong non restò che attraversare in massa il Mekong per cercare rifugio in Thailandia. Un esodo massiccio (oltre 400mila persone) che riempì i campi profughi ma mal sopportato da Bangkok. In nome della ritrovata concordia (e tanti buoni affari) con i comunisti laotiani, i thailandesi hanno chiuso i campi, sospeso le verifiche dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e premono per il rimpatrio coatto degli esuli sospettati d'appoggiare i piccoli gruppi d'irriducibili che continuano a guerreggiare oltreconfine.
Gli Usa, dopo aver concesso asilo al sulfureo Vang Pao (defunto nel 2011), hanno assorbito a intermittenza parte dei profughi. Una presenza ingombrante. Come magistralmente raccontato da Clint Eastwood nel suo capolavoro Gran Torino, i circa 280mila Hmong residenti negli Stati Uniti, faticano a integrarsi e restano una comunità emarginata e terribilmente povera. Con l'amministrazione Trump le cose sono ulteriormente peggiorate a causa dei provvedimenti che prevedono il rimpatrio per i rifugiati che si macchiano di crimini. La situazione ha creato un vero e proprio limbo in quanto il governo laotiano rifiuta il rimpatrio degli Hmong d'America.
Torniamo nella Guyana francese. Qui la sorte della comunità è stata decisamente più fortunata. Grazie all'intervento di alcuni missionari e le pressioni di ex comandanti dei GCMA, tra tutti il generale della Legione Jean Pierre Beauchesne, tra il 1977-79 il governo di Parigi ha trasferito numerose famiglie in Amazzonia. Dopo un difficile inizio, gli esuli hanno valorizzato il territorio dimostrandosi ottimi agricoltori. I risultati si vedono: pur essendo solo l'uno per cento della popolazione, gli Hmongs di Cacao assicurano oggi il 70 per cento della produzione di frutta e legumi guyanese. In più, grazie a un'attenta gestione dei fondi europei, i coloni continuano a ingrandire le loro proprietà e investire in serre, trattori, pozzi.
Un esempio di integrazione riuscita, ma la comunità non ha dimenticato lingua, usi, tradizioni, passato. A Jovouhey il tricolore francese sventola sulla stele che omaggia gli «Hmongs, fratelli d'arme della Francia, che mai hanno cessato di combattere e sono caduti per l'onore e per la libertà».
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