«Ho tramutato in facce di bronzo re, presidenti, attori e miliardari»

Nella protomoteca casalinga che intasa il suo attico di piazzale Loreto forse si sente un reperto di storia patria anche lui, il maestro Gualberto Rocchi. «Sono nato a Milano il 3 ottobre 1814», dice, e questa involontaria retrodatazione all’epoca del Congresso di Vienna sarà l’unico lapsus linguae a tradire, in una mattinata di conversazione, la memoria d’un uomo che a 91 anni ne dimostra 70 ed è ancora in piena attività.
In un mondo dove non mancano le facce di bronzo, lo scultore Rocchi ha avuto il coraggio d’andare fino in fondo: ha consegnato all’eternità, sotto forma di teste, busti e figure intere, i Potenti della Terra, tutti in versione bronzea appunto, tranne il presidente Richard Nixon, che preferì il marmo bianco di Carrara, e posò paziente per sei sedute, e ora che è tornato polvere può ancora troneggiare in forma solida nel Campidoglio di Washington con i suoi 29,38 inches (74,6 cm) di altezza, 22,75 inches (57,8 cm) di larghezza e 13,13 inches (33,3 cm) di profondità, come precisa pignolescamente il sito ufficiale del Senato degli Stati Uniti d’America.
Che le mani capaci di Rocchi trasformassero in bronzo perenne la faccia di Giulio Andreotti era nell’ordine delle cose, diciamo così, e non sarebbe neppure una notizia se, contestualmente, non avessero riservato identico destino alle famiglie reali di Spagna e d’Olanda; al presidente messicano Miguel Alemán; al direttore d’orchestra Arturo Toscanini; allo scrittore Salvator Gotta; all’astronauta Edwin Aldrin, che sbarcò dall’Apollo 11 e passeggiò sulla Luna; al regista Vincente Minnelli; agli attori Henry Fonda, Jack Nicholson, Rex Harrison, Yul Brinner, Rossano Brazzi e ai quattro figli del loro collega James Stewart; al miliardario Nelson Rockefeller, vicepresidente degli Usa; a John Lindsay, l’eclettico sindaco di New York che dopo aver tentato invano di conquistare la nomination democratica per la Casa Bianca si rassegnò a essere eletto senatore Donnovan nel film Operazione Rosebud di Otto Preminger, accanto a Peter O’Toole; al musicista Henry Mancini, autore di indimenticabili colonne sonore, da Colazione da Tiffany alla Pantera rosa; al professor Denton Cooley, il chirurgo di Houston famoso per i trapianti di cuore; a Dodi Al Fayed, il figlio del proprietario dei grandi magazzini Harrods di Londra morto con l’amante Lady Diana nel tragico incidente di Parigi; a don Giacomo Alberione, fondatore dei Paolini e di Famiglia Cristiana.
Anche nelle dinastie imprenditoriali che hanno fatto l’Italia resterà per sempre visibile l’impronta di Rocchi. Ha scolpito i conti Domenico, Ada, Cristina e Mario Agusta, quelli degli elicotteri; gli editori Arnoldo Mondadori e Cino Del Duca; l’inventore della Vespa, Enrico Piaggio, sua moglie Paola e la figlia Antonella, madre di Giovannino Agnelli, morta 16 mesi dopo lo sfortunato erede dell’impero Fiat. Ha eternato Giovanni Falck, il re dell’acciaio; Anna Bonomi Bolchini, la dama della Borsa che era già ferrigna di suo; Italo Monzino, il finanziere che donò a Milano un centro cardiologico d’avanguardia; Piero Catelli, il comasco della Artsana e della Chicco; e poi i Barilla, i Lavazza, i Camerana, i Rossi di Montelera, i Boroli, i Rusconi, i Brachetti Peretti, gli Zingone.
Ma poiché è destino che i simboli dell’orgoglio umano prima o poi vengano abbattuti dalla furia iconoclasta del popolo, come insegnano i crepuscoli di Lenin, Mussolini, Stalin, Ceausescu e Saddam Hussein, allo scultore milanese non è stato risparmiato il dolore di veder rotolare nella polvere alcune delle sue creature, dallo Scià di Persia, cacciato dai khomeinisti, allo statista congolese Mobutu, costretto all’esilio in Marocco, fino a Patrizia Gucci, che aveva ritratto con le figlie, condannata per l’omicidio del marito Maurizio. Sempre al passo con la storia e spesso dentro la storia. Come quel 17 maggio 1973, quando nel cortile della questura di Milano il ministro dell’Interno, Mariano Rumor, scoprì il busto che Rocchi aveva dedicato al commissario Luigi Calabresi, assassinato l’anno prima, e una bomba fece strage.
«L’arte astratta è il rifugio degli incapaci», detta adesso Gualberto Rocchi, anzi scrive di suo pugno sul mio bloc-notes, quasi volesse lasciare un testamento. Le sue opere trasudano un verismo talmente calligrafico da sembrare parlanti. Quasi sempre le copie di bronzo appaiono migliori degli originali di carne. Non ha mai tenuto mostre. Ha avuto uno studio a Portofino per 40 anni, uno ad Acapulco per 27, tre a New York per altri 10. Da pendolare dello scalpello e della spatola, è andato ovunque lo convocasse un committente di grido: ha dimorato a Beverly Hills per stare vicino alle star del cinema, a Dallas per effigiare i magnati del petrolio, in Costa Azzurra, a Londra, in Sudamerica, senza disdegnare alcuna candidatura, inclusa quella di Saro Balsamo, l’editore di riviste per soli uomini, o per uomini soli, che si vantava d’aver «dato le tette all’Italia».
All’Accademia di Brera era l’allievo prediletto di Francesco Messina, ricordato soprattutto per il Cavallo morente posto davanti alla sede della Rai in viale Mazzini a Roma. In una delle ultime interviste chiesero a Messina quale fosse la sua opera più riuscita. «Ho creato Rocchi», fu la risposta.
Le voleva bene, Messina.
«Gli davo fastidio con la mia vitalità. Se una statua non mi soddisfava, dopo 15 giorni di lavoro ero capacissimo di buttarla giù a calci e pugni, rimettere in piedi una nuova armatura e finirla in tre giorni. Gli altri allievi credevano di poter fare altrettanto e così in laboratorio regnava il caos permanente».
Quando si fece sentire la vocazione per l’arte?
«Fin da bambino. Mio padre Emilio era compositore. Scrisse opere e operette: Oltre l’Isonzo e Il principe di terra gialla andarono in scena al teatro Diana. Per campare, fece il direttore di Casa Ricordi e fu per 25 anni maestro sostituto alla Scala».
S’è ispirato a qualche scultore?
«Ai classici greci e romani. A Mirone, Prassitele, Fidia. Un po’ a Michelangelo, sebbene lo trovi troppo eroico, questo baroccone. Mi sento più vicino a Donatello».
Quanto c’impiega a eseguire un busto?
«Tre o quattro pose possono bastarmi. Toscanini mi disse: “Non gliene concedo più di due”. Maestro, balbettai, neanche un fotografo ce la farebbe con due pose. “Due! Torni domani”».
Dove?
«Nella sua villa di Riverdale, a New York. Il direttore d’orchestra era già ultraottantenne, prossimo alla morte. Conosceva mio padre dai tempi della Scala. Fu la figlia Wally, che aveva posato per me, a chiamarmi: “Devi ritrarre papà, ma è scorbutico, a lui interessa solo la musica”. La prima volta me lo mise di fronte a tavola, perché potessi studiarmelo. L’indomani mi presentai con la mia creta. Lo trovai in poltrona nel giardino e non ebbi il coraggio di dirgli che doveva mettersi su uno sgabello per essere all’altezza dei miei occhi. Perciò accorciai le gambe retrattili del cavalletto e stetti per ore in ginocchio nell’erba. Fu una preghiera, non una scultura. Però la guardi! Vede? Vibra, tanto è viva».
Quanti ne ha immortalati?
«Più di mille, sostiene mia moglie. È lei che tiene il conto. Donne e sculture per me erano la stessa cosa: ogni giorno una diversa. Da scapolo, quella che mi sopportò più a lungo fu Clodine De Botton, un’egiziana d’origine ebrea, poliglotta, figlia d’un avvocato. Finché un giorno un’amica non mi portò in studio a Portofino lei, Ana Maria, una ragazzona peruviana che mi fece sgranare gli occhi. L’anno dopo eravamo marito e moglie, nonostante i 34 anni di differenza. Abbiamo due figlie che vivono insieme a Londra. Natalia è grafica pubblicitaria e crea gioielli. Valentina è fisico aerospaziale e si occupa di geofisica e vulcanologia».
Le è mai capitato di sbagliarsi nelle proporzioni anatomiche o di rovinare un’opera?
«Uff... Alla terza posa chiedo al cliente: lei ha fiducia in me? Certamente, risponde. E la rompo in mille pezzi».
Mi racconti delle sedute con Nixon.
«La prima volta si presentò da solo alle 15 nel mio studio di New York. Aveva appena terminato il lunch e dopo dieci minuti fu colto dalla sonnolenza postprandiale. Io non sapevo che fare: mi raschiavo la voce, lasciavo cadere la stecca, ma lui continuava ad abbioccarsi. Alla fine dovetti pregarlo, per le successive sedute, di farsi accompagnare. Il giorno dopo arrivò con la segretaria Rose Mary Woods, la stessa che cercò inutilmente di salvarlo dall’impeachment cancellando i nastri dello scandalo Watergate».
La scultura da chi fu pagata?
«L’assegno veniva dalla Casa Bianca. Una volta portai due amici a Capitol Hill per fargli vedere il mio busto di Nixon esposto al primo piano. C’era una guida che spiegava a un gruppo di visitatori: “E questo è il presidente Nixon scolpito da mister Rocchi”. I am mister Rocchi, mi venne spontaneo interloquire, sono io mister Rocchi. Mi presero per matto, volevano chiamare la sicurezza».
Ma come fa uno scultore italiano a farsi conoscere dai Grandi del pianeta?
«Amicizie, coincidenze. A Nixon arrivai attraverso Anna Dogan, una giornalista che avevo conosciuto in California ed era entrata nel suo staff. La regina Beatrice d’Olanda invece, quando ancora era principessa, mi vide all’opera nella hall d’un hotel di Cervinia, dove stavo facevo il busto di un bambino. “Scolpisco anch’io qualche volta”, si complimentò. In seguito ricevetti una lettera firmata da lei e dalle sorelle, compresa la più piccola, che è cieca. Diceva: noi, virgola, quattro sorelle della regina Giuliana di Orange-Nassau e di Bernardo di Lippe-Biesterfeld, virgola, desideriamo regalare ai nostri genitori per il loro 25° anniversario di nozze una scultura che ci raffiguri. Ancora adesso la sovrana mi manda gli auguri per Natale. Idem re Juan Carlos di Spagna».
Che ha conosciuto in che modo?
«Per merito di Adnan Khashoggi. Ho lavorato molti anni per il finanziere arabo. Dapprima mi ha spedito a Beirut per ritrarre la moglie Soraya, inglese, con i quattro figli. Poi a Cannes mi ha commissionato il busto del padre Mohammed, medico della famiglia reale saudita. Nove anni dopo, quando s’è risposato con l’italiana Laura Biancolini, convertita all’Islam e chiamata Lamia, ho rifatto il gruppo di famiglia: la figlia Nabila, che a due anni aveva ricevuto in dono dal padre una pelliccia di visone, pensi un po’, attorniata dai quattro fratelli maschi. Infine la terza moglie, Shapari, iraniana, con i due figli. Ho lavorato per un mese sul Nabila, lo yacht di 86 metri dotato di eliporto, sala operatoria, cinema e discoteca, il più costoso del mondo».
È vero che aveva i rubinetti d’oro?
«Sì. C’erano solo otto cabine rivestite di pietre preziose. Quella mia e di mia moglie si chiamava Lapis, lapislazzuli. Khashoggi dormiva nella Emerald, smeraldi. Durante uno scalo a Palma di Maiorca salirono a bordo re Juan Carlos e la regina Sofia. Visitando il panfilo, videro nella mia stanza i busti di Adnan e di Lamia, che stavo ritoccando. Mezz’ora dopo l’addetto militare del sovrano m’informò che ero invitato dai reali spagnoli nel palazzo della Zarzuela, a Madrid, per fare la stessa cosa. Andai. Il fotografo di corte era sbigottito: “I più importanti artisti del mondo propongono a sua maestà di posare per ogni genere di opera e lui dice sempre di no. Poi arriva lei dall’Italia e ha tutta la famiglia reale a disposizione!”».
Non era facile avvicinare neppure lo Scià di Persia.
«Fui chiamato a Teheran per il busto del figlio primogenito, Ciro Reza, tre anni. Ero già in aeroporto, pronto al rientro in Italia. Vennero a prelevarmi e mi riportarono alla reggia: “Sua altezza imperiale Muhammad Reza Pahlavi desidera una scultura anche per sé”. A palazzo si veniva ammessi senza scarpe, ma non per un fatto religioso: per l’igiene. Lo Scià temeva che gli portassero dentro i microbi. Mi feci trovare pronto, piedi scalzi e grembiule da lavoro. Prima entrarono due omaccioni vestiti di nero, poi lo Scià e tre passi più indietro la moglie Farah Diba, seguiti da un paio di cagnetti cattivi che mi azzannarono i pantaloni. Io dovevo inchinarmi e nello stesso tempo difendermi. Lui rideva».
Maestoso.
«Mentre stava in posa, Farah Diba gli leggeva un libro. Con delicatezza ogni tanto gli chiedevo di girarsi verso di me. Lo faceva, ma senza mai incrociare i suoi occhi con i miei. Anni dopo ne parlai con un arabista. Si mise a ridere: “Ma come? Non lo sapevi che i persiani ti guardano solo qui?”». (Mi pianta l’indice in mezzo alla fronte).
Un busto dell’ayatollah Khomeini lo avrebbe fatto?
«No».
Perché?
«Perché non mi è stato chiesto».
E dell’attuale presidente dell’Iran, Ahmadinejad?
«Nemmeno. Troppo brutto».
Il più simpatico che ha ritratto?
«Joseph Lister Hill, senatore democratico dell’Alabama. Mi chiamava Mike, a sentir lui ero un altro Michelangelo. È morto nel 1984 all’età di 100 anni. Aveva un cameriere negro di 90 al quale si rivolgeva con un “hei, boy”».
Il più antipatico?
«Rex Harrison. Ignorante. Non capì che cos’avevo fatto. Si vedeva troppo vecchio. Poi qualcuno gli spiegò l’opera e ne fu soddisfatto».
Perché ha scolpito Richard Burton da solo, senza Liz Taylor?
«È già stato un miracolo così. Alla terza posa saltò la seduta. Arrivò il giorno dopo malsicuro sulle gambe: “Sorry Rocchi, last night I have drunk a bad wine”. S’era ubriacato in una bettola bevendo una ciufeca».
Ha dimenticato nessuno?
«Il piccolo William Randolph Hearst III, discendente dello spregiudicato editore che portava lo stesso nome e che fornì lo spunto a Orson Welles per il film Quarto potere. Dolores Patrick Guinness, erede della birreria che ha dato il nome al libro dei primati. E soprattutto Irving Thalberg, il produttore della Universal e della Metro Goldwin Mayer, marito dell’attrice Norma Shearer, preso a modello da Francis Scott Fitzgerald per il romanzo Gli ultimi fuochi. Il busto che gli feci nel 1961 viene assegnato ogni due anni durante la serata degli Oscar: il primo andò a Stanley Kramer, il regista di Vincitori e vinti e Indovina chi viene a cena?».
Perché si ordinano busti e statue?
«Per eternare la memoria di se stessi».
Non le sembrano monumenti alla vanità?
«Oddio... Un po’ sì».
Ha visto la statua di Indro Montanelli che hanno da poco inaugurato nei giardini di via Palestro?
«Solo in fotografia. Non è male».
Non è male? Tutta d’oro, sembra un venusiano.
«La Olivetti Lettera 22 che tiene sulle ginocchia è la parte migliore».
A Maglie fecero una statua di Aldo Moro con L’Unità sotto il braccio. A Macchia di Giarre inaugurarono un monumento ad Alfio Russo e quando fu sollevato il telo si scoprì che raffigurava Mario Missiroli: dall’archivio del Corriere della Sera avevano mandato allo scultore la foto del direttore sbagliato.
«Non capisco come possano capitare certe cose. La mia statua di Gaetano Martino, collocata in una piazza di Messina, fu visionata in corso d’opera e approvata due volte dal figlio Antonio, ministro come il padre».
Le piace l’Italia di oggi?
«Non la vedo. Sono agli arresti domiciliari. Lavoro e basta».
Romano Prodi le piace?
«No».
Un collega sopravvalutato.
«Arnaldo Pomodoro. Un po’ decorativo. Anche Henry Moore. A Firenze schizzava un bozzetto e lo faceva sviluppare agli scalpellini del lago Maggiore, che hanno la manina santa: il marmo di Candoglia con cui fu costruito il Duomo di Milano viene da lì».
Un collega che ha invidiato.
«Non è la parola giusta. Direi ammirato. Giacomo Manzù, il poeta della scultura. Ma non era un ritrattista. Io devo stupire facendo parlare i miei soggetti, non me. Il ritratto è l’arte più difficile e comporta la critica più facile: o assomiglia o non assomiglia».


Ha stima dei critici?
«Vanno oltre le intenzioni dell’artista, aggiungono parole superflue. Mi chiedono a che cosa penso mentre lavoro. A che cosa vuoi che pensi, caro? Al sugo della pasta che si sta bruciando, penso. Questo tormento...».
(335. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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