Hollywood era "muta" ma piena di follia creativa

Il film di Damien Chazelle fa rivivere un'epoca in cui il cinema era libertà e non perbenismo

Hollywood era "muta" ma piena di follia creativa

O lo ami, o lo detesti. Di certo, non esci dal cinema indifferente dopo esserti fatto travolgere dalle tre ore e poco più dello sfrenato Babylon, dal 19 gennaio nei cinema italiani. Film divisivo che potrebbe far man bassa ai prossimi Oscar, come venirne ingiustamente ignorato. Sarà che a firmarlo è Damien Chazelle, quello di La La Land e di Whiplash, uno dei rari registi contemporanei capace di creare ancora cinema allo stato puro, di esprimere settima arte nella massima essenza del suo splendore. Bastano i primi (s)folgoranti trenta minuti, quelli della (orgia camuffata da) festa nella magione del magnate/produttore di turno, per lasciarti senza respiro. Con un piano sequenza che diverrà memorabile per come sia riuscito, Chazelle, da abile direttore d'orchestra, a far incastrare ogni minimo movimento impiegando centinaia di comparse, come fosse un perfetto e sofisticato orologio. Il tutto per raccontare, quasi in maniera selvaggia, l'epopea degli Anni Venti, quando Hollywood era qualcosa ancora in divenire, sgangherata quanto orgiastica nei suoi eccessi, alle prese con il delicato passaggio dal muto al sonoro. Chazelle dipinge il tutto come un girone dantesco, tra fiumi di droga e feste che assomigliavano sì a baccanali, ma erano occasioni per stringere le mani giuste e farsi notare, anche senza avere qualità se non quella di essere giovani e belli/e. Non le comparsate marketing, di pochi minuti, a beneficio di Instagram, dei giorni nostri. Una rappresentazione, insomma, di quando tutto sembrava più vero e autentico, dove ognuno entrava a contatto con questa novità che ancora non era Mecca del Cinema, ma grandi spazi aperti dove girare e, soprattutto, improvvisare, non importa come, pur di portare a casa il ciak. E dove ognuno, che voleva, poteva davvero provare a «costruirsi» un mestiere, salvo poi rischiare di venirne rapidamente travolto dalla frenesia di quei primi anni. Come è successo, e viene raccontato molto bene in Babylon, a tanti divi del muto che, alle prese col sonoro, avevano capito di essere ormai superati, finiti, perché da quel momento sarebbe stato un cinema completamente diverso.

Del resto, con l'avvento del digitale, la storia sembra ripetersi. A Chazelle non interessa raccontare qualcosa di storicamente preciso, come è stato fatto notare da Paul Schrader («sul film si possono dire molte cose, ma non che sia accurato»). La sua è una sorta di improvvisazione narrativa, quasi una jam session depravata. Non è casuale il nome scelto del film. Babylon sta per Babilonia, ovvero Babele, la città della famosa torre biblica, luogo, come ricorda anche la Treccani, «di perdizione e di ignominia, oltre che di grande confusione». Al punto che la punizione di Dio fu quella di confondere le lingue, perché nessuno potesse più comunicare.

Esattamente quello che accadde ai divi del muto che, improvvisamente, come colpiti da una maledizione (l'arrivo del sonoro) finirono per non farsi comprendere più dagli spettatori che li adoravano, travolti anche dalle regole morali che la società americana iniziava a darsi. C'è una scena molto bella, in Babylon, dove Brad Pitt (perfetto e impeccabile, sia in smoking, sia in mutande ed esilarante quando si finge e parla italiano) interpreta proprio uno di questi divi, Jack Conrad.

All'apice della carriera costruita col muto, si ritrova a dover recitare con la sua voce. Va in un cinema, di nascosto, per ascoltare la reazione della gente per il suo primo film sonoro e la sente ridere a crepapelle davanti ad una recitazione involontariamente ridicola, per nulla fonogenica. Un personaggio che sembra ispirato al famoso divo del muto, John Gilbert; che da attore più pagato al mondo venne travolto da una voce che, alla prova del sonoro, stroncò la sua carriera.

Il vero cuore di Babylon, però, è Margot Robbie, nei panni di Nellie LaRoy (una sorta di alter ego di Clara Bow, l'attrice che ispirò il fumetto con Betty Boop), imbucatasi alla festa iniziale, sognando di diventare una stella, e ritrovatasi sul set, per caso, fino ad assurgere a diva. Grazie anche alla capacità di piangere una sola lacrima da un occhio, a comando, come avviene in una delle scene più divertenti di Babylon. Nellie, per tutto il film, deve lottare contro quella società perbenista che guardava, dall'alto in basso, le sue infime origini. Un ruolo debordante che sembra costruito su misura sul talento, unico, della Robbie, perfettamente a suo agio, fin dalle prime scene, quando irrompe alla festa, dove non è stata invitata, schiantandosi con la macchina contro una statua del giardino del magnate di turno. E dove conosce il messicano Manny (Diego Calva, ne sentiremo parlare a lungo), che considera il set il luogo più bello al mondo e che da tuttofare e assistente di regia fa rapidamente carriera diventando produttore, grazie alle sue doti, come solo allora poteva capitare. C'è anche Li Jun Li, alias Fay Zhu, personaggio che omaggia chi, nei film muti, scriveva le didascalie, altra professione travolta dall'arrivo del sonoro.

E fa ridere pensare a cosa sia diventata oggi Hollywood, con il Manuale Cencelli del politicamente corretto a dettare sceneggiature e interpreti, tanto che visto un film, gira e rigira, ti sembra di averli già visti tutti. Se l'omaggio al cinema di Spielberg, in The Fabelmans, è personale e composto, quello, quasi oltraggioso, di Chazelle, è senza freni. Un kolossal firmato da uno dei pochi Autori con la «A» maiuscola.

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