I Baustelle si divertono al Rolling Stone

«La guerra è finita» ma non per la band

Luca Testoni

Chi presta attenzione ai suoni genericamente pop che affollano l'underground di casa nostra ha ormai imparato che Baustelle non è semplicemente un sostantivo tedesco (significa «cantiere»), bensì anche il marchio di riconoscimento adottato da una band toscana quantomai emergente.
Sussidiario illustrato della giovinezza e La moda del lento, i primi due album dei senesi di Montepulciano da qualche tempo trapiantati a Milano (Francesco Bianconi, voce e autore; Rachele Bastreghi, voce e pianoforte; Claudio Brasini, chitarra e Claudio Chiari, percussioni), erano stati a loro modo dischi di culto e molto apprezzati per quell'anima leggera, romantica e con stile che li pervadeva.
Non a caso, la critica specializzata insisteva sul fatto che i Baustelle fossero fra i pochi in circolazione a fare «dischi capaci di far riconciliare il pubblico con la musica italiana». Per cui sembrava inevitabile, nonostante le difficoltà in cui versa da tempo l'industria discografica, pronosticare l'interessamento di una major pronta a inserirli (con contratto pluriennale) nella propria scuderia. Non c'è da da stupirsi, dunque, se il nuovo, riuscito cd, La malavita, sia uscito (in autunno) per i tipi della Warner Music italiana.
Buona notizia, il passaggio di categoria non pare aver minimamente intaccato (né corrotto) la vena creativa e l'approccio personale dei Baustelle, che proprio stasera, con il concerto in programma al Rolling Stone di corso XXII Marzo 32 (ore 22.30, ingresso 10 euro), danno il via alla tranche invernale del proprio tour nei club.
Trainato da La guerra è finita (un singolo perfetto, eppure non molto presente dall'airplay radiofonico, forse per la tematica scabrosa affrontata: il suicidio), La malavita («nel senso di vita vissuta male ma anche di banditi, perché nella nostra cultura si respira profondo il profumo dei noir anni Settanta», come tiene a precisare Francesco Bianconi) si presta a una doppia chiave di lettura.
Se ci si limita ad analizzare i suoni prevale un'atmosfera pop-rock (a due voci) a suo modo elegante, ma dalle melodie volatili e leggere. Un impasto senza dubbio accattivante, con un'evidente cura per gli arrangiamenti, anche orchestrali, e una malcelata passione per il modernariato applicato alla musica: la new wave anni Ottanta (sì sa, la moda è la moda...), tanto inglese come italiana (i rimandi a Garbo, quantomeno nel cantato, sono evidenti... ); David Bowie; le colonne sonore dei film noir degli anni Settanta; la canzone d'autore. E chi più ne ha più ne metta.
Se invece si focalizza l'attenzione sui testi si scopre un album dalle tematiche «pesanti e provocatorie, cupo e, a ben guardare, molto urbano. Comunque figlio dei tempi duri e non sempre facili in cui viviamo.

«Non scrivo mai cose astratte, sono un umile cronista del quotidiano e questo è il mio primo disco politico. Prima ero molto più intimista, ora canto il sociale proiettato nella vita di tutti i giorni», ha commentato di recente e alquanto perentorio Bianconi.

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