Lincontro di ieri fra il premier israeliano Olmert, il presidente egiziano Mubarak, il re di Giordania Abdallah e il presidente dellAutorità palestinese Abu Mazen (con la visibilissima assenza del Presidente Bush) più che una riunione «alla sommità» fra capi di governo e di Stato, appariva come quella di membri di un convalescenziario politico. Sui guai del Medio Oriente su cui potevano discutere se ne era aggiunto un altro - il primo attacco terrorista contro le forze dell'Onu in Libano che ha fatto morti e feriti fra i caschi blu.
Olmert, in previsione di quello che probabilmente non sarebbe stato deciso a Sharm el Sheik (e se deciso probabilmente non sarebbe stato messo in pratica a causa delle molte reazioni interne in Egitto, in Palestina e - in minor misura - anche in Israele e in Giordania), aveva messo le mani in avanti sui possibili deludenti risultati della conferenza alla riunione del suo governo domenica scorsa. Non ci dovevano essere grandi aspettative - aveva avvertito i membri del gabinetto. Aveva però annunciato la ripresa del trasferimento dei tassi doganali percepiti da Israele sulle merci palestinesi con un primo pagamento di 600 milioni di dollari (fondi Palestinesi trattenuti come misura di ritorsione contro Hamas ma sui quali Israele non ha alcun diritto) nonostante l'opposizione del rappresentante del partito di estrema destra Liberman. Olmert ha anche fatto approvare dai suo neo ministro della Difesa Barak una riduzione di posti di blocco in Cisgiordania ma per il momento l'esercito (che ha ripreso le uccisioni mirate a Gaza) si oppone.
Parlare del potere di Abu Mazen è come parlare di un'illusione. Il presidente dell'autorità palestinese non può contare sulle sue forze «presidenziali», armate dagli americani e dagli egiziani col consenso di Israele, che si sono dileguate davanti al deciso attacco di forze ben inferiori di Hamas abbandonando armi munizioni e archivi segreti a Gaza. Quanto alla sua popolarità in Cisgiordania non è certo grande e diminuirà in maniera proporzionale all'aiuto che riceverà dal «nemico» israeliano.
Nonostante le apparenze è il presidente egiziano che ha di fronte le maggiori difficoltà. Il Congresso americano per la prima volta dal tempo della firma di pace con Israele ha imposto una riduzione «punitiva» agli aiuti finanziari annuali che Washington offre all'Egitto. Si tratta di 200 milioni di dollari, un decimo del totale di aiuti, ma rappresenta uno schiaffo al prestigio del presidente perché «punisce» l'incapacità o la non volontà del Cairo di impedire il passaggio di armi a Hamas attraverso la frontiera e i tunnel di Gaza. Per un anno l'Egitto non ha mosso un dito per paura di essere accusato di «proteggere» Israele contro i «fratelli» palestinesi. Ora che questi - per di più affiliati all'organizzazione dei Fratelli Mussulmani all'opposizione in Egitto - dichiarano che le armi e l'esplosivo sequestrato saranno usati per «liberare» l'Egitto dall'oppressione del regime di Mubarak, il presidente egiziano ha forse più bisogno dell'aiuto di Israele che viceversa. Per rendersene conto basta leggere l'articolo - uno fra i molti - di Midhat Qallada, pubblicato sul quotidiano liberale Al Masri al Yaum.
L'Egitto - scrive l'editorialista - a causa del suo regime autoritario ha perduto la sua storica posizione di guida del mondo arabo. Invece di sfruttare come hanno fatto Cina e India le sue grandi risorse umane, si avvale dell'aiuto estero. Il ministro del Lavoro e dell'immigrazione Aisha Abdelhadi propone di esportare in Arabia Saudita 5 milioni di donne come domestiche invece di ingegneri e dottori. In uno Stato che dispone di grandi apparati di sicurezza, crescono i furti e i delitti. Le gerarchie religiose gareggiano nell'emettere decisioni che hanno dell'immaginario, come quella derivante dal bene procurato dal «bere l'urina del Profeta» mentre il Paese ha il più alto livello mondiale di epatite, di malattie renali, un milione di bambini senza padre e 40mila casi di richieste ai tribunali di riconoscimento di paternità contro nazionali sauditi.
R.A. Segre
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