«I distretti industriali restano il modello del nostro successo»

L’economista Quadrio Curzio: «Ci sono forme innovative di collaborazione. Le medie imprese hanno saputo ristrutturarsi e vincere la sfida dell’euro»

da Milano

L’industria italiana tiene, cresce, rinasce; nonostante l’impatto dell’euro, nonostante le inefficienze dello Stato. E si scopre nuova, più moderna, senza perdere le caratteristiche vincenti del passato. Alberto Quadrio Curzio - uno dei più apprezzati economisti italiani, preside della facoltà di Scienze politiche della Cattolica di Milano - ne è convinto. Con Marco Fortis ha appena pubblicato un saggio interessante «Industria e distretti. Un paradigma di perdurante competitività italiana» (Collana della Fondazione Edison, il Mulino editore). Lo abbiamo intervistato.
Professor Quadrio Curzio, i pessimisti hanno avuto torto?
«A cinque anni dall’introduzione dell’euro stiamo scoprendo che le imprese italiane sono riuscite a ristrutturarsi molto più rapidamente del previsto per operare senza il supporto della svalutazione della lira e sono competitive a livello mondiale. È un successo entusiasmante: abbiamo quattromila medie imprese dinamiche (senza parlare delle più grandi) che generano una parte significativa del gigantesco surplus commerciale, pari a 60-70 miliardi di euro. È un trionfo del nostro spirito imprenditoriale».
Ma molti settori soffrono, altri delocalizzano...
«Certo, diverse aziende nei settori del tessile, dell’abbigliamento, delle calzature hanno sofferto; ma chi resiste lo fa grazie a un aumento della qualità. E in altri settori molte volano. Per esempio si dice che la chimica in Italia non esiste più, ma non è vero: in questo settore la Lombardia è la seconda regione d’Europa. E realtà come quelle della Mapei e della Bracco, che operano in oltre cento Paesi, sono straordinarie. Tutto questo benché lo Stato abbia fatto poco per agevolarle».
Lei insiste sul ruolo dei distretti. Ma gli italiani non sono troppo individualisti per unire le proprie forze?
«La fusione di imprese credo che sia impensabile, però in alcune regioni si stanno sviluppando forme di stretta cooperazione molto interessanti. Per esempio creando strutture comuni per la ricerca scientifico-tecnologica, che permettono anche ad aziende molto piccole di beneficiare di tecniche sofisticate. Un bell’esempio è il “chilometro rosso” di Bergamo. Si crea un interesse comune che non contraddice né inibisce l’individualismo dei nostri imprenditori».
Anche nel Sud?
«Qualche distretto inizia a formarsi con una certa vivacità imprenditoriale, soprattutto in Puglia; ma si tratta di eccezioni».
Perché il Meridione non riesce a colmare nemmeno parzialmente il ritardo?
«Individuo tre ragioni. La prima: per decenni abbiamo condotto politiche sbagliate incentrate su grandi gruppi industriali con massicci interventi statali, e dunque sul lavoro dipendente, anziché sullo sviluppo di capacità imprenditoriali. La seconda: non c’è stato un processo di graduale industrializzazione, né di coesione sociale e comunitaria, che invece caratterizza il Nord. Terzo: la politica assistenzialista. Peccato, perché le potenzialità ci sono».
A cosa si riferisce?
«Anche al Sud è possibile creare poli di ricerca di alto livello, come dimostrano i casi di Catania, Napoli e Lecce. Ma non hanno fatto scuola. Lo sfruttamento del turismo richiede grandi sistemi organizzativi, che nel Meridione mancano: il confronto con la Spagna è mortificante.

Nell’agroalimentare la forte richiesta di prodotti di qualità potrebbe favorire molte imprese, ma poche ne approfittano».
L’infrastruttura quanto incide sulla nostra economia?
«Molto. Se il nostro debito fosse stato speso per migliorare treni, porti, strade e aeroporti oggi il Pil crescerebbe di due punti in più».

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