Peter Fill, 34 anni, è lo sciatore più veloce del mondo. Questo dicono i risultati delle ultime due stagioni. Già nel 2016 è stato il primo italiano nella storia dello sci ad aver vinto la Coppa del mondo di discesa libera. Con l'ultima gara, il 15 marzo ad Aspen, è arrivata la seconda. Un fulmine.
Quando ha deciso che lo sci sarebbe stata la sua professione?
«Intorno ai 14 anni. I risultati alle gare erano interessanti anche prima, ma non pensavo certo di diventare un campione. Poi sono arrivate le vittorie, a quel punto tutto mi era più chiaro».
Nel frattempo lavorava come carrozziere dallo zio.
«Finite le scuole medie non c'erano licei sportivi dalle mie parti. Per la verità avevamo pensato all'istituto frequentato da mia sorella, anche lei sciatrice, però non convinceva i miei genitori. Allora preferii lavorare da mio zio così potevo guadagnare i primi soldi. L'impegno quotidiano mi avrebbe aiutato a seguire una certa disciplina, sveglia alle 7 ma potevo avere i pomeriggi liberi per gli allenamenti: questi erano gli accordi con lo zio».
Quanto era consapevole di essere un talento?
«In tanti, allenatori compresi, mi dicevano che ne avevo. Di fatto, vincevo sempre le gare. Però non avevo molti termini di paragone: non guardavo mai le gare in tv, sapevo giusto chi fosse Alberto Tomba. Ricordo che un giorno, a una gara Fisi, sciai maluccio alla prima manche, quindi alla seconda partii per ultimo, però riuscii comunque a vincere. Un signore venne a complimentarsi. Gli amici mi dissero, sai chi è, vero?. Mi era totalmente sconosciuto».
Chi era?
«Gustav Thoeni. Poi l'ho incontrato nel 2003 a St Moritz».
A proposito di allenatori. Lei cita spesso Peter Thomaseth, il suo primo coach. Pare fosse parecchio severo...
«Non era facile collaborare con lui. Se sbagliavi qualcosa, ti faceva ritornare in cima alla salita a piedi. Però sentivo l'intensità della sua motivazione, dava il massimo».
Quanti anni ha lavorato con lui?
«Dai 10 ai 15 anni».
Non crede che troppa severità possa poi avere un effetto bloccante?
«Con i ragazzi serve. Però adesso è cambiato tutto. Se un allenatore è troppo duro, il ragazzo va dai genitori, si lamenta e questi lo assecondano. Non è facile fare l'allenatore di questi tempi».
Genitori troppo protettivi?
«Vogliono che i figli imparino a sciare, che si divertano, fanno fare qualche gara, ma quando si chiede di fare qualcosa extra per ottenere maggiori risultati, si tirano indietro. Così non si allena lo spirito di sacrificio».
Un anno fa è arrivato il secondo figlio, Noah. Il 2016 è stato proprio speciale sotto tutti i punti di vista...
«Ho raccolto i risultati del 2015, l'anno in cui mi sono sposato ed ho finito di costruire la casa. Tutto questo mi ha dato la serenità e l'equilibrio per poter lavorare in un certo modo. Temevo che con i figli avrei rallentato, invece ho addirittura accelerato. Aveva ragione mia moglie: dovevamo muoverci già prima».
Moglie sciatrice?
«Manuela non è né sciatrice, né sportiva. Siamo insieme dal 2001, quindi ha sofferto e festeggiato con me. Ci siamo conosciuti alla festa di maturità di mia cugina, è nata in una frazione di Castelrotto, 120 abitanti».
Parlava di sofferenze. Ora festeggia, ma ci sono stati anni difficili, pochi podi, infortuni...
«Il peggiore è stato quello in cui si ammalò mio padre. Poi ci sono stati gli anni in cui ho avuto seri problemi con i materiali. Nel frattempo erano cambiati e io sciavo con Dynastar, una ditta piccolissima che non aveva seguito questi sviluppi, pagando poi lo scotto. Nel 2009 i tempi erano maturi per fare il salto di qualità, c'erano tutte le premesse, ma ecco l'infortunio. Riparto e di nuovo mi faccio male, questa volta alle mani. C'era sempre qualcosa che non girava bene».
La maturità ha comunque aiutato a raggiungere gli ultimi risultati?
«Nelle discipline veloci, la maturità è fondamentale, un balsamo. Riesci a capire meglio i diversi tracciati, la tipologia di neve. Anche se non si finisce mai di imparare».
Cosa le ha insegnato lo sport?
«Il senso della disciplina, che per la verità serve in ogni ambito della vita se si punta a dei risultati. Ma ancor prima, la capacità di passare velocemente dai successi alle delusioni. Lo sport è fatto così, è un continuo oscillare fra momenti di euforia e di tristezza. E passare da un estremo all'altro non è facile, devi imparare, serve allenamento anche qui. Lo sport mi ha insegnato a rialzarmi, sempre e comunque».
Le capita di sciare per divertimento, o scatta sempre la testa dell'atleta competitivo?
«Ho un calendario pieno, e il poco tempo che mi rimane, lo dedico alla famiglia. Quando torno a casa, vado a camminare, o in motoslitta, porto a spasso i bimbi. Le pile le ricarico così. Quindi sì, scio solo quando mi alleno. Da anni vorrei prendermi una settimana in coda alla stagione per fare heliskiing, in Alaska o Canada, ma anche in Europa dove possibile, però manca sempre il tempo».
La famiglia è costantemente nei suoi pensieri.
«Sicuramente viene prima dello sci: che è il mio lavoro, mi dà l'opportunità di guadagnare soldi che poi mi servono per dare supporto alla famiglia. Io vivo così, mi appaga godermi gli affetti».
Giornata tipo di Peter Fill quando non gareggia o si allena sulle nevi.
«Più che giornata, direi settimana tipo. Allenamento 6 giorni su 7. Al mattino pesi e il pomeriggio velocità, alterno scatti e salti, ma anche resistenza andando in bici 2 o 3 ore. Nella nuova casa ho creato una palestra, così riesco a stare di più con la famiglia. Poi mi alleno tanto anche al Centro Sportivo Carabinieri di Selva Val Gardena».
Ci descrive la pista Streif a Kitzbühel? La sua pendenza inquieta anche voi campioni?
«È la pista più interessante che ci sia, con passaggi particolari e le due curve più difficili del mondo. Ci vuole qualcosa in più per arrivare in fondo, oltre a sciare bene, è necessario tanto, tanto coraggio. Se non sei in forma, non è facile affrontarla, ma se ti senti bene è spettacolo puro. Se sbagli, la paghi cara sulla Streif. È la gara più importate, quella che ognuno vorrebbe vincere almeno una volta nella vita».
Richiede attitudine al rischio. Lei è uno che rischia anche quando non gareggia?
«Proprio il contrario. Nella quotidianità non voglio rischiare. Rischio già tanto nello sport. Io sono una persona abbastanza tranquilla, faccio una vita normale. Credo in un sano equilibrio, non si può sempre rischiare tutto».
È uno sciatore polivalente, ma particolarmente portato per le discipline veloci. Che doti richiedono al di là di quelle fisiche?
«Non devi avere paura, semmai uno spiccato senso di gestione della paura. Devi avere coraggio, tanto coraggio, non puoi agitarti più di tanto. Quando arrivi a 100 chilometri all'ora, devi affrontare quel momento con grande decisione. C'è chi dopo una certa velocità perde lucidità. Invece è proprio lì, quando superi una certa velocità, che devi essere lucido, convinto di te stesso, delle tue capacità. È quando senti che vai a 150 all'ora che devi accelerare».
Qual è la sua velocità media?
«Mediamente raggiungiamo i 165 chilometri in gara, ma durante le prove ho toccato anche i 190 all'ora».
Velocità anche nella vita?
«Sì, mi piace molto. In luglio ho partecipato alla gara del circuito Audi Sport TT Cup, in Olanda. È stata una bella esperienza. Del resto, per un discesista è abbastanza naturale cercare la miglior linea anche sull'asfalto».
«Coloro che sanno vincere sono molto più numerosi di quelli che sanno fare buon uso della loro vittoria» diceva Polibio. È proprio così difficile far buon uso della vittoria?
«Credo che la vittoria aiuti nell'immediato, ma anche più in là. Dà molta carica, ti ricorda che sei stato il migliore, inietta energia. Però non ci sto tanto a pensare, vedremo più in là se ne ho fatto buon uso».
Dopo l'addio alla carriera cosa farà?
«Mi piacerebbe
rimanere in questo ambito. Penso che potrei dare tanto ai giovani, ho accumulato esperienza, tante gare, posso trasmettere quello che ho imparato. E sono abbastanza aperto per accettare e ascoltare chi non la pensa come me».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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