I fratelli sempre sul piede di guerra

La feroce rivalità tra Adolf e Rudolf, fondatori di «Adidas» e «Puma», società leader nel mondo per le scarpe sportive

Nel 1970, alla partita di apertura dei campionati del mondo, Pelé interruppe l’arbitro per chiedergli di annodarsi le scarpe, ma proprio all'ultimo studiato momento. E così sorridente offrì infantile ai televisori di tutto il mondo il più bel primo piano delle sue scarpe Puma. Affilate, parevano muoversi da sole, e su quei piedi sembrarono a chiunque di una morbidezza che la concorrenza si poteva solo sognare. Fosse davvero poi così importava poco; contava la pubblicità. Come ben sapeva il proprietario delle Adidas: il settantenne Adolf Dassler, Adi con le manone, e quei tratti robusti di chi aveva parecchio lavorato e s’era pure arrabbiato. Come quel giorno davanti alla tv, mentre la concorrenza gli aveva soffiato Pelé. Anzi fosse stata soltanto la concorrenza non gli avrebbe fatto così tanta rabbia. S’immaginava quasi il viso del proprietario della Puma, a fargli il verso. E costui si chiamava Dassler pure lui, ed era Rudolf, suo fratello di due anni più vecchio. Calcolò a più di centomila dollari la somma sborsata dalla concorrenza fraterna per la pubblicità. Ma di certo non minore fu il dispetto che a sua volta Rudolf si sentì d'aver patito dopo che al figlio di Adi riuscì due anni più tardi un colpo mirabile. Far sollevare a Marc Spitz nelle Olimpiadi un paio di Adidas, in una delle sette premiazioni. Insomma, caro lettore, mentre ragazzi sceglievamo l’una o l’altra marca, noi inconsapevoli entravamo in una guerra fratricida. Iniziata a Herzogenaurach, cittadina della Franconia, pure lei ormai divisa in due.
Eppure chi avesse visto nei freddi mesi del 1920 i due fratelli Adolf e Rudolf al lavoro, chini coi tre lavoranti a cucire scarpe, si sarebbe commosso. Ogni sera in bicicletta per le strade di quella loro cittadina impoverita pure lei dalla fame del terribile dopoguerra, alla ricerca di pezzi di pelle. Da strappare persino dagli elmi di guerra e dai sacchi vecchi per mutarli in suole o parti delle scarpe. Che prima dell’alba loro erano già lì a cucire in serenità nella lavanderia della madre, che non aveva più clienti. Ma il ventenne Adi ne era certo: il loro era un affare da insistere e comunque c’era ben poco da fare anche per Rudolf dopo cinque anni di guerra in trincea. Era costui più verboso e però più freddo, adatto a convincere i clienti e a vendere, che non Adi, che aveva la tenacia invidiabile del boxeur dilettante che era stato. Egli era anche artigiano migliore e aveva ragione: gli anni Venti colmarono la Germania di debiti ma anche di stadi per le Sei giorni di ciclismo o ogni altra mania sportiva. Perciò anche la società Fratelli Dassler, fondata con cautela il primo luglio 1924, crebbe in misura esponenziale. E crebbero pure i due Dassler che misero su famiglia. Rudolf sposò la giudiziosa Friedl; Adi invece s’invaghì della biondina Kaethe, infantile almeno per quant’era graziosa. Le due erano fatte per non intendersi, s’ingelosirono. Né ad Adolf piacquero sguardi e riguardi che il fratello dedicava a sua moglie, e per i quali la gente spettegolava.
Il fastidio si sommò ai primi litigi sul da farsi nella Grande Depressione. Ma quell’eccitazione sportiva, che agli Hitleriti serviva per ipnotizzare la nazione, favorì i Dassler. Ricompose i loro dissidi. Rudolf con seriosità, e Adi con sobria praticità aderirono al regime. Ma la loro vera mania era la morbidezza delle scarpe, l’urgenza di venderne il maggior numero. Perciò, nel 1936, Adi Dassler montò sulla Opel Olympia, luccicante di fabbrica, e virò verso l’autostrada per Berlino, pure lei appena costruita. Aveva con sé una pila di splendide scarpe con ogni cura cucite e incartate, quando arrivò dov’erano gli americani al Villaggio Olimpico. Chiese di Jesse Owens, che in soli quarantacinque minuti alle selezioni americane aveva battuto quattro record del mondo. E si trovò di fronte quell’educato nero aggraziato, che Hitler disprezzava.
Ma i Dassler avevano riconosciuto in lui il migliore, dunque quello che aveva più chance di vincere, e fare pubblicità alle loro scarpe. Adi lo persuase a indossarle. Owens vinse le sue medaglie, per il dispetto di Hitler e la felicità dei Dassler, che videro le loro scarpe ottenere fama mondiale. Nel 1939 erano arrivati già a venderne duecentomila paia. Ma la guerra significò pure produzione pianificata; fu loro concesso di produrne non più di seimila paia al mese. E nel ’41 dovettero quasi del tutto abbandonare la produzione sportiva. Fu circa quando il congedo inatteso di Adi sconcertò Rudolf e il litigio tra i due ritornò più testardo di prima. Così nel 1943 durante un bombardamento dentro il rifugio, dove era anche Adi, arrivarono Rudolf e la moglie, e si sentirono dire: «Sono arrivati i bastardi». Per quanto poi Adi pretendesse d’essersi riferito ai bombardieri inglesi, il fratello non gli credette. Incattivito pure di venire richiamato alle armi, lui il più vecchio, in Polonia, mentre Adolf restava in fabbrica. Per ripicca arrivò ad augurarsi che gliela chiudessero. Non avvenne.
Ma la fabbrica fu riconvertita per produrre pezzi di ricambio per panzerfaust. Rudolf poi quasi non venne fucilato dalla Gestapo; furono i panzer dell’Armata Rossa a salvarlo, ma non a terminare i suoi guai. Il 25 luglio venne imprigionato dagli americani, accusato di aver collaborato coi nazisti. Neppure gli ordinati istinti dei tedeschi evitarono il caos alla denazificazione. La moglie Friedl lo ritrovò chiuso in cella, ancora più incattivito. Un ufficiale americano gli aveva detto che stava in galera perché qualcuno lo aveva denunciato. Inutile dire chi Rudolf pensava fosse stata la spia.
Tuttavia gli americani stavano giovando non poco alla fratelli Dassler. Ordinavano camion di scarpe da baseball e basket. A fine 1945 partì persino la produzione di quelle da hockey su ghiaccio. E infine Rudolf il 31 luglio 1946 fu rilasciato. Subito s’adoprò per nuocere ad Adi come meglio poteva; denunciò che lui aveva gestito la riconversione militare della fabbrica. Ad Adi toccò una multa ingente. Nell’aprile del ’48 inevitabile arrivò la fine della loro società. Pratico, Adolf chiamò la sua parte Adidas, sintesi perfetta del suo nome e cognome. Rudolf tentò di imitarlo, chiamando la sua Ruda. Ma era un troppo eccellente venditore; capì subito che non funzionava. Così il nome evolvette a Puma. Il fiume Aurach iniziò a dividere in due la cittadina e i suoi abitanti che presero l’abitudine di non rivolgersi nemmeno la parola se le loro scarpe non erano quelle giuste. Persino Lothar Matthäus, figlio d’un operaio della Puma, avrà i suoi guai quando una squadra vorrà imporgli le Adidas. Comunque nella spartizione tutta l’amministrazione e il settore vendite furono per Rudolf. La produzione invece si disse per Adi. La rivalità s’estese, non meno feroce, ai campi sportivi. A Zàtopek furono infilate le Adidas, anche se i comunisti gli imposero di togliere una striscia. Però le scarpe da pallone di Rudolf erano più eleganti. Tuttavia, nel 1954, al suo trionfo mondiale, la nazionale tedesca indossava le Adidas, coi tacchetti svitabili.

La rivalità feroce s’estese ai figli e i due persino morirono senza rappacificarsi. Può dirsi pertanto non trascurabile particolare che la Nazionale italiana agli ultimi mondiali abbia indossato le scarpe della Puma, e non le altre.

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