I personaggi e i fatti che raccontano la storia del nostro Paese in una serie di immagini d'autore

Era il più grande bugiardo che io abbia mai conosciuto. Parole e musica di Pupi Avati, che di Federico Fellini era (quasi) corregionale. Essendo l'uno di Bologna, l'altro di Rimini. E si sa che emiliani e romagnoli tengono, eccome, alle distanze, minime solo geograficamente. Insomma, Avati, che pure si vanta di essere un grande mentitore, deve ammettere che Fellini lo surclassava anche nella sottile arte della bugia. Realtà o leggenda che fosse, ma fior di testimoni propendono per la prima ipotesi, Fellini è passato alla storia per i suoi film, non certo per le menzogne, i flirt (quanti nemmeno si sa, povera Giulietta Masina) e i disegni.
Un genio? Certo che sì. Anche perché a una prima parte folgorante della carriera, ne seguì un'altra meno sensazionale. Senza che la critica colta, ormai ammaliata per l'eternità, si ponesse qualche dubbio. Uno su tutti: non è che Federico il Grande facesse sempre lo stesso film? Fuori dai denti: quanti «Amarcord» ha girato, oltre a quello, famosissimo, che ce l'ha stampigliato nel titolo? È vero, il primo amore non si scorda mai, nel nostro caso la Romagna, più che le romagnole, ma Fellini ha esagerato un po' nell'andirivieni con i ricordi di gioventù.
Basti pensare che il suo primo film sul filo della memoria è l'opera d'esordio, Luci del varietà, che il trentenne regista girò insieme con un collega di poco più anziano, Alberto Lattuada. Sarà un caso, ma il Fellini migliore, tesi ovviamente discutibile, è quello in bianco e nero: da Lo sceicco Bianco a Il bidone, da Le notti di Cabiria a La dolce vita (anno di grazia 1960, quando il maestro di anni ne aveva quaranta). Passando naturalmente per I vitelloni, il suo vero capolavoro, dove il leggendario gesto dell'ombrello di Sordi ha fatto sempre passare in secondo piano la struggente malinconia di fondo, oltre al talento di attori che non sono ingiustamente riusciti a raggiungere le vette della popolarità.
Nel '62 Fellini ha incontrato il colore e sono cominciati i guai. Per lui e per gli spettatori. Primo della lista Boccaccio 70, commedia in quattro episodi, affidati a quattro autori diversi. Fellini è l'autore del più riuscito (o meno brutto?) dei quattro siparietti, Le tentazioni del dottor Antonio. Con la complicità umoristica di Peppino De Filippo e le forme extralarge di Anitona Ekberg, si dimostra ben più spiritoso e pungente di De Sica, Monicelli e Visconti, che dirigono gli altri tre.

Il secondo film a colori è del '65: Giulietta degli spiriti, l'ennesimo amarcord, dove lo spettatore, privo di laurea in psicologia, si gratta la pera: sarà sogno o realtà? Perplessità che non sfiorano nemmeno la critica snob, pronta a fingere di aver capito tutto, perfino del suo ultimo film, il micidiale Le voci della luna. Fu vera gloria? Ai posteri, rimasti svegli, l'ardua sentenza.

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