Umberto Saba è un poeta abitato dal demone dell'autobiografismo. Leggendo la sua vasta opera in versi, tutta confluita nelle varie edizioni del Canzoniere, ma anche il suo mirabile libro di aforismi intitolato Scorciatoie e raccontini, del 1946, o il romanzo postumo Ernesto, uscito non senza qualche scandalo nel 1975, ci troviamo costantemente di fronte a lui, a quell'Umberto Poli che non conobbe il padre, ebbe una madre ebrea, e preferì cambiare il suo nome in Saba (in ebraico: pane) proprio in omaggio a lei.
Vediamo la sua città, Trieste, allora ancora parte dell'Impero austro-ungarico, la sua adolescenza turbata da desideri ambigui, sua moglie, «la buona, la meravigliosa Lina», sua figlia Linuccia, e il piccolo «d'antichi libri raro negozietto» in cui passò una buona parte della sua esistenza, la malattia che lo spinse a cercare conforto nella psicoanalisi, la sua esperienza di esilio e di povertà nel momento più buio del secolo scorso, quello delle persecuzioni razziali. Eppure capiamo subito che quest'uomo uomo provato e sofferente era dotato di una natura miracolosamente infantile, capace di amare la semplice quotidianità dell'esistenza con una struggente aderenza a ogni momento e a ogni azione. Penso alle Cinque poesie per il gioco del calcio, tra cui quella memorabile intitolata Goal, con le immagini chiave dei due portieri, quello caduto, sconfitto, con gli occhi pieni di lacrime, e quello davanti alla sua rete inviolata, la cui gioia «si fa una capriola». O alle Dieci poesie per un canarino, tra cui quella celeberrima dedicata a un giovane comunista, a cui «piace più Togliatti» di qualunque canarino un matto di poeta possa amare.
La poesia di Saba, proprio in virtù di questo autobiografismo, fonde da una parte lirismo (un lirismo classico, in cui entrano echi che partono da lontano, da quel Foscolo di cui un giorno Saba pensò: «Era delle mie parti») e racconto, dall'altra fonde un metro tradizionale, talvolta aulico, e un lessico semplice, fatto di parole comuni, quotidiane. Lo incantava la rima fiore/amore, «la più antica, difficile del mondo», amava l'endecasillabo ben modulato: «Vagammo tutto il pomeriggio in cerca/ d'un luogo a fare di due vite una»: ma i contenuti della sua poesia sono turbati, moderni, come potevano essere quelli di un autore che inscriveva il proprio lavoro, come dichiara in uno tra i rivelatori e intelligentissimi aforismi di Scorciatoie, sotto la costellazione di Nietzsche e di Freud.
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