"I piani di rilancio non servono se non finiscono negli stipendi"

Ha iniziato come tecnico, è diventato il numero uno di Ibm, ora guida le auto della Dallara: "In Italia il vero virus è la burocrazia"

"I piani di rilancio non servono se non finiscono negli stipendi"

Il nonno lo avvertì: «Guardati da chi vuole raggiungere troppo in fretta gli obiettivi». Andrea Pontremoli, classe 1957, è andato veloce, ma sempre gustando il percorso che lo ha portato a cominciare negli anni 80 come tecnico, per diventarne, 24 anni dopo, ad e presidente di Ibm Italia.

Dal 2007 è amministratore delegato e socio di Dallara, leader, fra Formula 3 e Indycar, nella progettazione e sviluppo di auto da corsa. Da tre anni guida anche Muner Motorvehicle University of Emilia Romagna, corpus accademico, pensato in sinergia con gli altri marchi della motor valley italiana.

Figlio di un mugnaio, di una sarta e della verdissima Valceno, 30 kilometri a sud di Parma, il suo circuito di vita è racchiuso fra Varano de' Melegari, il fondo valle dove l'azienda sforna un made in Italy che infiamma le piste americane del motorsport, e le colline dove abita, in un piccolo borgo ai piedi di un castello fatato. Qui ha trascorso il lockdown, «guardandomi dentro per guardare avanti». Unica concessione: qualche gita al garage per mettere in moto la sua auto e sentirne ancora il rombo.

Com'è trascorso il tempo, oltre il garage?

«Si sono invertiti i parametri tempo e spazio: prima avevamo poco del primo e molto del secondo. Poi abbiamo avuto, d'improvviso, meno spazio, più tempo e modo di pensare che, per ripartire, sarebbe servito ingranare la prima, la seconda, verso una nuova velocità di crociera».

Come sta ripartendo il mondo dell'automotive?

«È un universo con due galassie: c'è la mobilità dove conta andare da un punto all'altro, non importa come, basta l'efficacia dello spostamento. Questo è il settore che dovrà interrogarsi di più sul futuro, sia sul prodotto, sia sul modello di business e vendita. Poi c'è il nostro segmento, che punta al piacere della guida e dell'adrenalina: è una nicchia che non va verso la massificazione. Gli asset resteranno le persone, la fisicità, il contatto e l'esperienza diretta».

Però lei di una mobilità alternativa ha già fatto un credo: continua a vivere in un piccolo borgo. È questo il futuro?

«Ho vissuto parte della mia vita dimenticandomi del perché andavo veloce, del perché fosse normale trovarsi tutti alla stessa ora in tangenziale e così via, puntando sul pensiero razionale e non critico. Il ritmo del mondo decideva per me, ma sapevo di non essere felice. Non so se le città del futuro, se mai le riprogetteremo, somiglieranno a Bardi, il mio paese, o si potrà proporre un nuovo modello borgocittà. Qui viviamo un boom di richieste di ristrutturazioni: credo sia giusto lavorare dove si deve, ma poi tornare in un luogo bello, che ci somigli. Questa crisi è l'occasione da non sprecare per ridiscutere il rapporto uomocittà».

Che cos'altro ha «imparato» dalla pandemia?

«Tutte le innovazioni derivano dalla costrizione: si procede per approssimazioni successive. Senza la notte, forse, Edison non avrebbe inventato la lampadina. Anche in azienda abbiamo rimesso in discussione molte abitudini: non avevamo, per esempio, mai fatto prima una videoconferenza con tutti i dipendenti. Con l'ingegner Dallara, negli ultimi mesi, ne abbiamo fatte diverse. Eppure avevamo già prima gli strumenti per realizzarle».

Che cosa l'ha fatta, invece, arrabbiare?

«Abbiamo chiuso da marzo ad inizio maggio, senza mai ricorrere alla cassa integrazione che, per i nostri dipendenti, avrebbe significato una forte decurtazione in busta paga. Abbiamo creato una banca ore, grazie all'idea di un nostro giovane dipendente, che ha proposto di donare le sue vacanze ai colleghi. Esaurite le ferie, abbiamo riaperto, ma non con tutti, dato che il motorsport sarebbe stato fermo fino a luglio. Solo allora siamo ricorsi alla Cig, decidendo, però di integrare fino al 90% la busta paga di chi guadagna meno di 2mila euro, all'80% per gli altri. Abbiamo usato la liquidità dell'azienda, non abbiamo chiesto nulla a nessuno e ci siamo ritrovati una tassazione del 220%: significa che 1000 euro di integrazione, ne costano 2200, Inail compreso, anche se i dipendenti sono a casa. L'operazione in totale costerà 5-6 milioni: come un grande yacht, che però sarebbe tassato al 22%».

Fra uscirne migliori o peggiori, proviamo a puntare almeno ad un pareggio

«Saremo migliori come senso di solidarietà, ma la pandemia ha fatto emergere il vero virus di un sistema, inadeguato a gestire l'emergenza, per via della burocrazia. La questione non è avere un piano di rilancio del Paese, ma trasferirlo in concreto nella busta paga di ciascuno, in tempi rapidi. L'uovo di Pasqua a Natale non lo vendi: anche se non è perfetto lo devi vendere a Pasqua!

Dalla B di Boston dov'è nato, a quella italiana di Bardi, dove tornò da bambino lei è stato un cervello in viaggio, ma mai in fuga.

«Sono molti gli emigrati da Bardi: lo capisci d'estate quando tornano da Regno Unito o Stati Uniti; lo si è capito durante la pandemia: un nostro concittadino ci ha spedito 60 mila mascherine dagli Usa, altrettanto martoriati! La vera comunità non ha confini geografici, ma culturali. Essere italiano, emiliano significa condividere un certo modo di essere. L'ho imparato qui e ad Ibm, dove mi hanno insegnato i tre tempi della vita»

Sembra l'enigma della Sfinge: quale creatura cammina a quattro zampe poi due, quindi tre

«Usiamo l'inglese: Learn, earn, serve. E' l'insegnamento dell'ingegner Ennio Presutti, una delle persone fondamentali del mio percorso. Quando entrai in Ibm non sapeva nemmeno chi fossi, poi quando arrivai a lavorare a contatto con lui, fu il papà che non ho più. Le sue 70 pagine di Riflessioni e consigli per i giovani dirigenti sono un manuale da collezione, ma è il suo esempio a contare. Mi spiegò che prima si deve imparare, poi anche guadagnare, ma che alla fine conta to serve, rendere quello che si è avuto, essere utili, in termini di esperienza, gratitudine. Io l'ho fatto col mio territorio, accettando la sfida con Dallara».

A 55 anni, ai vertici di una multinazionale, ha mollato tutto.

«Era tempo di tornare a casa. Non so a chi sia servito più coraggio, forse all'ingegner Giampaolo Dallara che mi affidò parte della sua creatura. Per me il passaggio da manager ad imprenditore, con una quota importante in Dallara, è significato un cambio di testa. L'azienda diventa come un figlio: nessuno pensa di guadagnarci su. Lavori, semmai, su che cosa tramandare e su come restituire la fortuna che si ha avuto».

A proposito di eredi: una delle sue 5 figlie è stata sindaco. Com'è farsi governare da una figlia? A casa, poi, lei sarà in perenne minoranza: avrà bisogno di quote blu

«Mia figlia è stata, all'epoca, il più giovane sindaco d'Italia: vederla, alcuni anni fa il 2 giugno, incontrare il presidente Sergio Mattarella per ricevere il Tricolore è stato un grande orgoglio. Però, guardi, pur attorniato da donne in famiglia, non mi sento in minoranza e delle quote rosa sono da sempre un sostenitore».

Quanto conta questa battaglia?

«Il gap è innegabile: finché il sistema non va in equilibrio tu lo devi sostenere. Finché a decidere sono uomini al 80%, non si procederà mai per merito. In Dallara, alcuni anni fa, un caso fece scalpore: una dipendente ci annunciò la gravidanza e io la nominai caporeparto. Poverina, finì che chiamava in azienda ogni giorno anche durante il congedo, ma è stata la strada giusta. Premio e responsabilità».

Che effetto fa vendere agli americani, inventori dell'auto?

«A loro non interessa da dove vieni, guardano al risultato, al merito. Così è stato ad Indianapolis che è una competizione super sana, perché ti costringe a metterti in continua discussione e a ripartire da zero anche dopo una vittoria. Questo è il bello dell'America: anche il figlio del mugnaio, partendo dall'Italia, se ha una metodologia giusta, può diventare amministratore delegato. Per contro all'America mancano altri aspetti: se riesci a coniugare la loro meritocrazia e la loro organizzazione alla nostra creatività, ottieni una spinta incredibile, vincente».

La vostra Fase Due è, intanto, ricominciata dalla Dallara Stradale, l'ultima avventura, debutto fra le auto normali, con targa.

«È stato emozionante, lo scorso maggio, consegnare la prima auto post virus. Il lavoro è ripartito da li, da quel settore che ha ordinativi di lungo periodo. La Stradale è un sogno dell'ingegner Dallara: In strada non c'è un'auto col mio nome, dopo che ho lavorato per tutti. L'azienda aveva una sorta di debito con lui e da fine 2017 l'auto è in produzione. Prima solo gialla o blu, i colori del Parma. Ora le possibilità sono infinite, anche fluo e carbon look. L'ingegner Dallara avrebbe preferito il modello a barchetta classica aperta, come la sua gialla, la numero uno. Per la numero due, la mia, scelsi il blu, ma aggiunsi il tetto smontabile. Un po' mi imposi: Così vinciamo tutti e due, gli dissi e oggi è questo il modello più richiesto.

Motor valley, food valley: in questo scampolo di Emilia vi riesce tutto bene. Qual è il segreto?

«Se c'è, ha a che fare con una forte idea di socialità. Siamo una filiera unica, nel raggio di 150 km, fra clienti e fornitori, spesso ti dimentichi chi è cosa. È un modo di stare insieme che deriva dall'antica cultura delle cooperative».

Ora pensate anche all'istruzione con l'università Muner e la vostra Academy?

«Abbiamo cominciato aiutando a ricollocarsi 20 disoccupati delle nostre valli, fra Ceno e Taro. Ottenuto un diploma, tutti magicamente lavoravano. Che cos'era cambiato? La formazione. Così, insieme alle altre aziende della motor valley abbiamo investito su percorsi tecnico professionali, poi sull'università e su un primo master. Ora la Dallara academy ha il compito di far emergere la passione nei giovanissimi facendo loro capire l'importanza di materie come matematica, geometria, fisica. È commovente vedere, il sabato mattina, l'ingegner Dallara fare il maestro a classi di bimbi delle elementari in visita».

Grazie al vostro impegno ci si laurea in motor valley: avete colmato così il gap università mondo del lavoro?

«Abbiamo ideato sei corsi di laurea magistrale, interdisciplinari fra quattro atenei del territorio: il 20% sono studenti non europei, l'80% è comunitario. Ci sono 150 posti che non bastano al nostro fabbisogno: lo scorso anno, solo in Dallara, abbiamo fatto 80 assunzioni. Però sono ragazzi con competenze specifiche che crescono, utilizzando tutto il nostro know how, dalla galleria del vento ai simulatori, strumenti che di solito si vedono solo sulla carta».

La sua vita fra i motori è solo un piano B: lei voleva fare il Dj e lo fa ancora per gli amici

«La musica è l'altra mia grande maestra. Da ragazzo facevo il Dj allo Snoopy di Modena, dove ho conosciuto Vasco Rossi: credevo che non sarebbe arrivato a 30 anni. Invece, ancora oggi, i suoi testi sono una fonte di ispirazione perché parlano di un uomo e del suo percorso, partito da Bollicine ed Albachiara ed arrivato fino ad oggi a trovare Un senso.

È questa la colonna sonora della ripartenza?

«Si, ma ho ascoltato molto anche i Pink Floyd con I wish you were here.

È una frase che dici o quando sei molto triste e ti mancano qualcuno o qualcosa o quando sei molto felice e vuoi condividere le tue emozioni. Mi sembra il senso perfetto per andare avanti a disegnare il futuro, il mio e quello dei miei figli».

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