I segreti per fare il pane a casa

Roberta Corradin

Senigallia vista solo poche ore prima aveva l’effervescenza del sabato del villaggio, l’allegria della festa nell’aria. Solo poche ore dopo, avevamo già tutti le mani in pasta, in un senso positivo. A parte la commozione di constatare che esistono ancora insegnanti entusiasti capaci di guidare scolaresche improvvisamente silenziose, attente e rapite dal rito della trebbiatura, riprodotta in loco con macchinari d’epoca dall’associazione S.p.i.g.a. ovvero Strani Personaggi Inseguono Gioie Antiche (dite se non fa venire voglia di iscriversi). A parte la ventata internazionale portata dai gemellaggi con panificatori inglesi, francesi e tedeschi che hanno profumato l’aria di croissant, pani dolci all’uvetta e dei classici Brezel salati. A parte le signore col filo di perle che facevano incetta di spighe. A parte la festa, le bruschette allo spazio enoteca, i piatti della tradizione povera a base di pane vecchio riciclato proposti dall’istituto alberghiero Panzini che animava con docenti e studenti lo spazio ristorante. A parte la convinzione personale che uno degli ingredienti base del pane sia il carattere del panettiere, confermata dalla simpatia di Giovanni Bertolino e Sebastiano Leo, che hanno visto il loro pane nero di Castelvetrano diventare un presidio Slow Food. A parte la rassegna di pani marchigiani, dalla ciambella della cresima (dolce poverissimo lessato, glassato e asciugato in forno) ai maritozzi con l’uvetta, dalle schiere del marinaio (bellissime e cadute in disuso tanto che non si trovano più in commercio: le ha fatte un panificatore di Fano apposta per Pane nostrum, www.panenostrum.com) alle paste con il mosto, più che mai di stagione. A parte i pani, in mostra nella loro apparentemente inesauribile molteplicità, il clou della festa sono state le lezioni di panificazione, con un’affluenza di pubblico circa quattro volte maggiore di quella che si attendevano il fornaio Giuliano Pediconi e il tecnico Antonio Cipriani, piacevolmente spiazzati. Per dirla con Isabel Allende, un cui passo tratto da Afrodita campeggiava come motto nell’«aula», «fare il pane può diventare una passione pericolosa», e a Senigallia si è visto. Noi abbiamo imparato delle ricette, ma soprattutto dei precetti.
Primo. La farina dev’essere di qualità. Tocca superare l’antica dicotomia tra zero e doppio zero. Quel che conta, per fare il pane, è il valore proteico: diciamo che 15 è alto, e corrisponde a una farina «forte», adatta a farci una ciabatta, e 10 è basso, tipico di una farina «debole» da scegliere se si pensa ai grissini o a qualcosa di croccante. Ora, le informazioni sul valore proteico si trovano sui pacchi di farina grandi, diciamo così, professionali, e il consiglio è quello di acquistare la farina da un bravo mugnaio.
Secondo. La parola magica è manitoba. Grano canadese molto ricco di proteine, il manitoba dà una farina che di norma si mischia alla farina nostrana per equilibrarne il valore proteico. In commercio si trovano mix già pronti delle due farine in percentuale adatta alla panificazione.
Terzo. Ingrediente base nella panificazione professionale è il malto, imprescindibilmente seguito dall’aggettivo diastasico. Se non è diastasico, ciccia, non lo vogliamo. Se non lo si trova, a casa, niente mal di testa e niente sostituti: il consiglio è di sostituirlo d’amblé con poco zucchero.
Quarto. Altra parola magica: biga. Non c’entrano gli antichi romani e nemmeno i calessi: la biga è un preimpasto fatto con un giorno di anticipo. Conferisce un’acidità ideale per la lievitazione. A casa, si può preparare con 200 grammi di farina Manitoba, 90 grammi di acqua, 2 grammi di lievito di birra. Attenzione: occorre solo amalgamare, non impastare. si copre con un telo e si aspetta sino al giorno dopo. E qui, interviene Antonio Cipriani, c’entra il valore dell’esperienza: saper riconoscere se la biga è troppo liquida o acida non è cosa che si improvvisa da un giorno all’altro. A noi principianti tocca sperare bene.
Quinto: il tempo. Quello atmosferico, perché se c’è umidità tempi e modi della lievitazione cambiano. E quello dell’orologio: non pensate nemmeno di fare il pane se non disponete di tre-quattro ore come minimo, funzionali ai tempi morti di attesa tra le successive lavorazioni. Una forma da mezzo chilo cuoce in 45-50 minuti.
Sesto: la temperatura. Quella della lavorazione, innanzi tutto: se si superano i 35 gradi, la fermentazione accelera, e gusto e colore ne risentono. Specialmente se si impasta con le mani, sottolinea Giuliano Pediconi, l’acqua aggiunta all’impasto dev’essere ghiacciata. Per la lievitazione, l’ideale è un ambiente caldo e umido. Per la cottura, meglio cominciare con una temperatura elevata e dopo dieci minuti abbassare di 20-25 gradi.
Settimo. Questione di feeling: l’impasto si sente, insistono i fornai. Antonio, da buon toscano, a chi gli chiede come si capisce quando è pronto l’impasto: «Quando ti fan male i bracci».
Ottavo. Tagli e incisioni. Non sono solo decorativi: servono ad asciugare il pane durante la cottura.
Nono. Semi in superficie. Se il pane è sufficientemente colloso, basta rotolarlo sui semi. Se è asciutto, nebulizzateci un po’ d’acqua con uno spruzzino e i semi aderiranno alla crosta.
Decimo. Il bambino. È così che i fornai chiamano il loro lievito madre. Con tutte le cure di cui ha bisogno, sfido.
Facile per principianti assoluti: grissini.

1 chilo di farina debole (per biscotti), 15 grammi di lievito, 70 grammi di olio, 15 grammi di sale, mezzo litro di acqua. Si impasta, si lascia lievitare, si formano i grissini, si cuociono in forno a 220 gradi e poi 200. Attenti a non bruciarli.

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