I timori dei leader palestinesi: «Processo di pace a rischio»

Abu Mazen e Abu Ala: «Preghiamo per la sua guarigione. Questo evento avrà ripercussioni non solo in Israele ma in tutta la regione»

I timori dei leader palestinesi: «Processo di pace a rischio»

Marcello Foa

La preoccupazione dei leader, l’esultanza di pochi, l’indifferenza mista a rancore dei più. I palestinesi accolgono con smarrimento le notizie provenienti da Gerusalemme sul ricovero di Sharon. Si rendono conto che la sua uscita dalla scena politica avrà importanti ripercussioni, oltre che sullo Stato ebraico, anche sul loro futuro. Il pensiero corre al processo di pace, che era avviato verso una lenta ripresa, e, nell’immediato, alle elezioni legislative del 25 gennaio, che potrebbero essere rinviate, soprattutto se Israele varerà nuove misure di sicurezza in Cisgiordania, impedendo di fatto la campagna elettorale. Uno scenario confermato da Saeb Erekat, il capo dei negoziatori palestinesi. «Ci auguriamo che la vicenda di Sharon non condizioni la risposta degli israeliani alle nostre aspettative», ha detto Erekat aggiungendo che le elezioni «non si terranno» se il vicepremier israeliano Ehud Olmert, a cui sono stati trasferiti i poteri di Sharon, non concederà ai palestinesi di Gerusalemme Est il diritto di partecipare al voto. Una questione delicata, questa, irrisolta da tempo; tanto delicata da indurre la Casa Bianca a mandare nei Territori due mediatori - Elliott Abrams, del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, e David Welch, del Dipartimento di Stato - per tentare di trovare un’intesa. La loro missione era prevista per oggi, ma in seguito al malore di Sharon è stata rinviata al fine settimana.
Gli occhi di tutti ora sono puntati sul presidente Abu Mazen, che ieri non ha nascosto la sua inquietudine e che in serata ha parlato al telefono con il premier ad interim Ehud Olmert. Il volto teso, lo sguardo corrucciato, nessun sorriso, nemmeno di circostanza: «Seguo con grande preccupazione le notizie sulla salute di Sharon», ha dichiarato ai margini di un comizio elettorale a Ramallah «e gli auguro una pronta guarigione». Un sentimento condiviso dal premier Abu Ala: «Condividiamo l’angoscia del popolo israeliano: le nostre preghiere vanno al primo ministro Sharon, al governo e al popolo israeliano», si legge in un comunicato. «Non c’è dubbio che questo evento avrà ripercussioni non solo per Israele ma per tutta la regione».
Solo qualche mese fa Sharon era visto come il peggior nemico dei palestinesi. Era l’uomo che negli anni Cinquanta guidava le missioni punitive nei Territori, durante le quali fece distruggere centinaia di case palestinesi. Il suo nome era legato al massacro di Sabra e Chatila compiuto nel 1982 a Beirut da una milizia libanese alleata di Israele durante l'invasione del Paese dei Cedri ordinata dall’attuale premier, che a quel tempo era ministro della Difesa. Negli anni Novanta, nominato ministro dell’Edilizia, autorizzò l’estensione delle colonie. Nel Duemila con la sua legittima ma inopportuna visita alla moschea di Al Aqsa, accese la scintilla della seconda Intifada, che poi represse con durezza. Fu lui a tenere isolato Arafat tra le rovine del suo quartier generale, fino alla morte del leader storico dell’Anp poco più di un anno fa. È Sharon, infine, il premier che ha fatto alzare il Muro.
Eppure negli ultimi dodici mesi è stato proprio il «falco» Ariel a decidere l’evacuazione di tutti gli insediamenti di Gaza, lui ad annunciare che era giunto il momento di riprendere seriamente il dialogo con Abu Mazen, lui ad abbandondare il partito della destra israeliana, il Likud, per fondarne uno nuovo, il Kadima, incentrato su un obiettivo prioritario: far la pace con i palestinesi. Ecco perché, paradossalmente, Sharon ora rappresentava perlomeno una speranza per Gaza e Cisgiordania. Tanto più che la sua svolta pacifista era incoraggiata dalla Casa Bianca, più che mai interessata a favorire una soluzione al dissidio israelopalestinese.
«Nonostante tutti i crimini che ha commesso, ora è meglio che rimanga vivo», commenta alla radio palestinese uno dei giornalisti più noti, Ghazi al-Saadi. «È stato il primo leader ebraico a non rivendicare i diritti di Israele su tutte le terre di Palestina». Pochi altri si espongono al punto di elogiare il premier ricoverato al reparto cure intensive dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme. Per le strade di Ramallah e di Gaza City la maggior parte dei palestinesi non condivide l’ansia dei leader, ma nemmeno la gioia degli estremisti. Si limita a osservare, con freddezza.

Aspetta gli eventi, che secondo la leader palestinese, Hanan Ashrawi, non saranno fausti. Ricorda che tra poco anche gli israeliani saranno chiamati alle urne: «E quando si entra in campagna elettorale la retorica prevale. Prevedo tempi duri per noi».

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