
Leggo il bel libro di Marco Belpoliti Nord Nord (Einaudi, pagg. 270, euro 20), una raccolta di testi tutti dedicati all'esplorazione non di cose lontane, ma di quello che ci è vicino. Che cos'è il Nord per un uomo del Nord? Come si fa a trovare (per davvero) quello che sta sotto i nostri piedi/occhi? Quale enorme patrimonio si porta dietro una persona, anche solo per il fatto di mettersi in cammino, guardare e raccontare ciò che ha visto? Ma cosa vuol dire raccontare ciò che vediamo? È sempre possibile?
Il più grande evento nella storia della specie umana fu, con ogni probabilità, il passaggio dal nomadismo alla stanzialità, al tramonto del Paleolitico, grosso modo dieci o dodicimila anni fa. La Terra smise, a poco a poco, di essere un luogo inospitale, sempre più esseri umani smisero di fuggire, iniziarono a coltivare e ad allevare, costruirono utensili per seminare, dissodare, contenere, trasportare. Sorsero regole, patti, valori da rispettare. Nel nuovo mondo, l'abitatore si orienta, «abitare» e «orientarsi» sono verbi quasi sinonimi. L'orientamento, la lettura delle stelle, i punti cardinali, le mappe e le carte geografiche sono prerogativa dell'uomo che sa dove si trova, l'uomo che ha familiarità col mondo, che lo abita.
Questa è la condizione di ogni racconto. Si cammina, si emigra, ma per raccontare bisogna fermarsi. Google Maps in questo non è un buon alleato: ci dice quando voltare a destra o a sinistra, ma non se stiamo andando a Nord o a Sud. Ciò che sta tra la partenza e l'arrivo è non-luogo, non ha specificità, quasi non esiste, non ha storia perché non richiede atti di conoscenza.
Stiamo perdendo il senso del legame con il pezzo del mondo che abitiamo. Se così non fosse, non esisterebbero certi pazzi, scrittori fotografi filmaker reporter, che - armati di zaino e scarpe robuste - sentono il bisogno potente di andare, camminare, registrare ciò che vedono, a volte per raccontarlo, altre volte per catalogarlo, per studiarlo, per mapparlo di nuovo: per riportare alla conoscenza la cosa più difficile da conoscere: quello che si trova sotto i nostri occhi.
Marco Belpoliti non è un narratore perché non usa gli attrezzi del mestiere, i simboli e le metafore. È piuttosto un cercatore di indizi. La sua musa è la prossimità. Cerca i confini della Brianza, cammina per un pendio osservando la costruzione delle case, i muri di confine, gli accidenti prodotti dalla storia geologica e l'incidenza di tutto questo sul carattere degli uomini. Ama i massi erratici (chi non li ama?). A volte si aiuta con un disegno, altre con una fotografia, propria o altrui).
Alle pagine sulla Brianza si alternano quelle su Milano. Belpoliti sa che l'archeologia di un quartiere cittadino è fatta anche dalle storie di chi ci abita o di chi ci ha abitato. Uno scrittore, un intellettuale possono dare forma e tono a un quartiere, a una strada, allo stesso modo in cui la possono dare un monumento o i segni di un tracciato urbano preesistente. La storia umana e quella naturale convergono.
Anche qui, la conoscenza non ha bisogno di particolari lontananze, di viaggi nell'estraneità, se non per un'esigenza contrappuntistica (come le paginette finali sul fiume Drava). Quasi tutto ciò che Belpoliti attraversa nelle sue esplorazioni e nei suoi resoconti gli è già noto. Ci offre un bel ritratto di Milano parlando solo dei suoi amici, Enzo Mari, Lea Vergine, Vincenzo Consolo, Gabriele Basilico, Umberto Fiori. Ma non si tratta di biografie, Marco non vuole commemorare o lodare: piuttosto ci ricorda che una città non è soltanto una somma di vie e piazze ma qualcosa che si moltiplica dentro ciascuno di noi, con le sue presenze e le sue mancanze.
La città personale, quella di ciascuno, è spesso essenziale per penetrare la città comune, e i grandi eventi determinano negli anni - anche al di là del loro verificarsi - il travaso dell'una nell'altra. Pensiamo al design, al '68, a Piazza Fontana, a Pinelli, ma anche all'Expo o al sorgere di quartieri nuovi. Quante vite si trasformano, deviano dal vecchio percorso, ricominciano.
Ho molto amato questa ricerca un po' minimalista, cocciuta della faccia di Milano dentro i confini del già saputo (che tale, poi, non è). Ne emergono fiori bellissimi e inaspettati. Come quando, a pagina 51, l'autore ci parla - citando un vecchio libretto - dell'affabilità come fattore determinante il carattere di una città: la sua «bellezza» non è tanto un fatto estetico (come siamo portati a pensare noi italiani), quanto relazionale, «il dialogo tra chi la abita e gli edifici che la costituiscono». È il punto più bello del libro, la luce che lo illumina. Pur nelle sue idiosincrasie, nelle sue esclusioni, Belpoliti cerca l'affabilità.
Nel bel ritratto di Lea Vergine (la grande critica d'arte) lo scrittore fa il proprio autoritratto intellettuale: «la vicinanza le era (...) intollerabile, tuttavia il desiderio di contatto, di farsi capire e di capire l'altro, era per lei assoluto».
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