I videogame hanno eclissato tutte le stelle di Hollywood

Lavinia Borea

da Milano

C'è una rivoluzione in atto nel modo di divertirsi, ma non la vediamo, perché rimane chiusa in casa. Oggi 300 milioni di persone nel mondo giocano con i videogame. Come se ciascun cittadino statunitense, inclusi nonni e neonati, fosse davanti al computer con un joystick in mano, sentendosi un raptosauro che tenta di difendere le uova. Per la generazione dei 13-25 anni non siamo molto lontani dalla realtà.
I giovani americani oramai preferiscono i videogiochi al cinema. La categoria che per anni ha trainato le vendite ai botteghini, nel 2004 ha visto il 24% di film in meno dell'anno precedente. I veri blockbuster non sono più i film.
Il videogioco Halo 2 il primo giorno di lancio ha fatturato 125 milioni di dollari, gli incassi di Spider Man 2 il primo giorno di botteghino si sono fermati a 40 milioni. L'indotto dei videogame ha già superato quello del cinema, 34 miliardi di dollari attesi nel 2005, rispetto ai 21 miliardi del cinema nel 2004. Hollywood è a dir poco spaventata e non solo lei. La maggior parte dei videogiochi è un invito alla violenza. Sei un combattente con un universo di armi a disposizione. Se ci giochi ininterrottamente per ore ogni giorno, finisci per credere che la realtà sia quella dello schermo.
Al pari dei film oggi i videogame sono delle produzioni colossali. Ci sono intere squadre di programmatori, grafici, designer, tecnici del suono e produttori che si dedicano al progetto. Molti giochi oggi hanno licenze costose, utilizzano i divi di Hollywood e colonne sonore di compositori affermati.
I costi di marketing per il lancio dei prodotti spesso superano i costi di produzione. Di media gli investimenti per lo sviluppo e il lancio di un nuovo videogame si aggirano intorno ai 5 milioni di dollari. Il punto di pareggio viene raggiunto a circa 500.000 pezzi venduti. Solo le grandi case internazionali possono quindi permettersi di puntare su una distribuzione globale.
Secondo le ultime previsioni di «Dfc Intelligence», le nuove console di Microsoft, Nintendo e Sony lanceranno ulteriormente le vendite di videogiochi. Il fatturato mondiale dei software interattivi passerà dai 18 miliardi del 2004 a circa 26 miliardi nel 2010. Le previsioni più ottimistiche prevedono di raggiungere i 25 miliardi di fatturato già nel 2008.
Come ogni settore anche i videogiochi hanno i loro Oscar, e i nuovi divi.
Il gioco professionista si sta facendo serio. Ci sono tornei mondiali che passano da Rio de Janeiro ad Atene. Nel 2000 se ne disputavano due all'anno, oggi sono 25.
Le celebrità sono assalite dai fan in cerca di autografi e si contendono premi da centinaia di migliaia di dollari. In questi giorni ci sono le finali a New York, con un montepremi di 500.000 dollari. Con i tornei sono nati i Tiger Woods, o il Totti della situazione.
Il divo del momento è Johnathan «Fatality» Wendel, il cyberatleta ventiquattrenne professionista, che negli ultimi 5 anni ha vinto più tornei di chiunque altro, per un controvalore superiore ai 350mila dollari. Si prepara giocando per ore ogni giorno con un allenatore, un suo amico contro cui combattere. Si presenta alle gare con tanto di cuffie con musica techno a palla per scaldarsi e isolarsi dalla folla. I suoi rivali sono un olandese di vent’anni Sander «Vo0» Kaasjager, e Alexander «Ztrider» Ingarv, uno svedese di 18. Combattono all'interno di un castello medievale, tra labirinti e ponti levatoi. Il target è in evidenza, perché «luminoso». Vince chi, in 15 minuti, uccide il nemico il maggior numero di volte.
Ma Wendel fa molto di più che vincere tornei. È diventato il maggior testimonial di giochi al mondo.
Vuole rendere i videogame un fenomeno popolare, condiviso e apprezzato dalle folle e sta lavorando alla creazione del suo marchio, qualcosa di mai fatto dagli atleti del cyberspazio.

Già offre in licenza il nome Fatality a parecchi produttori di hardware e sta per lanciare un suo pc a breve. I teenager potranno presto indossare cappellini, abiti e persino scarpe antistatiche tutte a nome Fatality.
E pensare che sua madre lo sgridava perché giocare ai videogiochi era una perdita di tempo.

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