Imane Asry è una giovane modella marocchina. Da anni vive in Svezia, il Paese che l'ha accolta per trasformarla in influencer, ma in hijab. È diventata, infatti, abbastanza velocemente un'icona di stile nel grande nord. Presenzia alle sfilate, seguitissima sui social e celebrata dalle riviste di moda del mondo: è il nuovo stile che avanza, la donna con il velo islamico che copre il capo e il collo. Le piace la crescente accettazione e normalizzazione nella moda del velo che indossa con fierezza. E questo l'ha portata persino a essere la vincitrice del «Look of the Year», qualche settimana fa, nel concorso indetto dall'edizione svedese della rivista di moda Elle.
«Questo premio è per tutti noi che non ci siamo visti nelle riviste di moda perché non ci siamo adattati... Questo riconoscimento è per raccontare che è tempo di iniziare a normalizzare l'hijab nel settore della moda. La moda è per tutti», ha detto Asry alla premiazione di Elle.
La modella s'è data come obiettivo di raccontare la moda con la fede, «fashion with faith», per essere sempre di più esempio per le nuove generazioni svedesi. Ci sta riuscendo. Ed è sintomatico che ciò accada nel Paese che si è autoproclamato come «il primo governo femminista della storia». Mentre è sicuramente vero che la moda ha compreso che bisogna compiacere i gusti di quelle donne islamiche in un'Europa dove l'islam è la religione in più rapida crescita, sdoganare e normalizzare il velo islamico è ormai la nuova frontiera del progressismo. Motivo per cui Sumaya Abdel Qader fa dire alla protagonista del suo nuovo romanzo, «portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna, oggi come oggi è un atto ribelle e femminista».
Nel 2016 anche il Canada pensò di celebrare lo hijab con una giornata a esso dedicata a Ottawa. L'organizzazione, la City for All Women Iniziative, indisse l'iniziativa per incoraggiare le donne non musulmane a indossare lo hijab per meglio comprendere come vive una donna musulmana. Apprendere di iniziative del genere provoca un sorriso amaro. Il velo, e in particolare lo hijab, è l'oggetto minimo per la donna che osserva la shari'a - la legge sacra islamica che s'intreccia con il diritto. E il velo è proprio l'espressione di quella sottomissione a cui la donna non può fuggire. Il velo è il simbolo per eccellenza del sogno di rilanciare l'islam come alternativa globale, religiosa e politica. D'altronde Linda Sarsour, la leader della Marcia delle donne, ha trascorso gli ultimi anni cercando di vendere al pubblico americano l'hijab come un simbolo di «empowerment».
Ma sono tante le donne che non riescono proprio a vedere un segno di femminismo o progressismo, e che per esserselo sfilato hanno pagato con la galera o la vita. E se le donne iraniane detenute nella famigerata prigione di Qarchak, a Teheran, per essersi sfilate il velo aumentano, in Svezia la situazione è surreale. Il Center for Societal, presso la Swedish Defence University, ha mostrato che ormai nel Paese «ci sono genitori che fanno indossare il velo alle bambine di tre anni». Le autorità in più occasioni hanno dovuto fronteggiare situazioni come quella in cui una bambina voleva giocare alla parrucchiera con le compagne di classe, ma le maestre le hanno imposto di indossare nuovamente il velo perché era la volontà dei genitori. In un'altra circostanza una bambina ha voluto semplicemente toglierselo ma, sempre per non disobbedire al volere dei genitori, le maestre glielo hanno fatto indossare nuovamente.
In Afghanistan e in alcune parti dell'Arabia Saudita, le donne rischiano percosse, multe e cose ben peggiori se mostrano i loro capelli. La BBC racconta come nel 2002, in Arabia Saudita, è scoppiato un incendio in un scuola e «la polizia religiosa ha impedito ad alcune studentesse di lasciare l'edificio in fiamme perché non indossavano adeguati abiti islamici (...) foulard e abaya». Quindici ragazze morirono nel fuoco e più di 50 rimasero ustionate.
Chi in Occidente lo difende, ignora gli abusi subiti quotidianamente dalle donne musulmane, i delitti d'onore, il sistema di tutela maschile, i matrimoni forzati, la pratica delle mutilazioni genitali femminili (MGF), e i tribunali della shari'a, che sono diventati popolari nel Regno Unito. Magari potrebbe provare a fare quattro chiacchiere con l'unica medaglia olimpica femminile iraniana, Kimia Alizadeh, cacciata dalla squadra nazionale per essersi sfilata il velo durante un torneo.
Nel frattempo l'islamicamente corretto ha da anni contagiato le collezioni dei più importanti brand di moda al mondo, ingrossando il business della moda per normalizzare l'hijab e rafforzare soltanto il messaggio che impone il «se non siete coperte, non siete rispettabili e quindi non accettate».
Nel 2013, un video intitolato Somewhere in America pubblicato sui social, mostrava giovani donne in abiti di super lusso che indossano il velo mentre fanno una pausa, ballano, fanno skateboard o addirittura guidano una motocicletta a New York City. Visto da milioni di persone, il video ha dato vita al movimento «hijabistas». Una nuova realtà immortalata dal nuovo rapporto «Stato dell'economia global islamica 2019/2020».
A leggerlo si scopre come il modesto mercato della moda islamica - che nel 2016 valeva 270 miliardi di dollari - preveda che la spesa musulmana in abbigliamento crescerà del 6% per raggiungere i 402 miliardi di dollari entro il 2024.
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