Infami e immorali le notti romane di duemila anni fa

Taverne, postriboli, baccanali, prostituti... La vita «a luci rosse» di una metropoli imperiale

Leggendo questo dotto ma gradevole libro di Karl-Wilhelm Weeber La vita notturna nell’antica Roma (Newton Compton, pagg. 174, euro 8.90), viene fatto di ricordare il famoso motto Nihil novi sub sole («Nulla di nuovo sotto il sole»). Queste pagine, foltissime di riferimenti a testi di tutti i più famosi classici latini, sembra che narrino fatti, abitudini, vezzi, sconcezze, volgarità, passatempi grossolani e persino delittuosi, dei nostri giorni. Del resto i titoli dei singoli capitoli sono una dimostrazione dell’attualità - salvo alcuni aspetti più brutali della legislazione e del costume - del comportamento non solo notturno dei nostri progenitori. Ne riproduciamo alcuni per comodità del lettore e per invogliarlo a leggere un libro «colto», ma anche più divertente e autentico della virtuale verità dei nostri televisivi reality show: «Osterie, taverne e locande»; «Quando il gioco dei dadi regna nella notte»; «Sfaccettature dell’ambiente a luci rosse romano»; «Baccanali con leggi folli»; «Nottambuli o teppisti?»; «Rappresentazioni notturne alla luce delle fiaccole». Ma facciamo esempi più precisi: Weeber ci ricorda che il commediografo Plauto stabilisce (nella commedia Curculio, 33) i limiti dell’«amore lecito»: «Nessuno proibisce o ti vieta di comprarla, dato che è liberamente in vendita (...) Lascia stare le donne maritate, le vedove, le vergini, i giovanotti, i ragazzi di nascita libera e poi fa’ pure all’amore con chi vuoi» (pag. 68). A proposito di queste «categorie» alle quali non si deve chiedere o imporre sesso, c’è però un’esclusione che fa rabbrividire: i ragazzi liberi. Ciò perché la pederastia e l’amore mercenario erano invece permessi e apertamente praticati con adolescenti schiavi. Ma ancora oggi, se facessimo una statistica dell’estrazione sociale dei giovanissimi prostituti dei nostri giorni, quasi certamente scopriremmo che essi sono di estrazione sociale, se non schiavile, molto vicina alla schiavitù, o comunque all’estrema povertà. Anche nei vasti e sordidi ambienti della prostituzione femminile c’erano, pur se non codificate, distinzioni sociali: le meretrices, giovani donne attraenti, che operavano all’interno di lupanari di qualche distinzione e «lavoravano» in condizioni molto diverse da quelle delle postribulae, che di solito attendevano e adescavano i clienti fuori delle «case» o direttamente ai margini delle strade di maggior traffico. Ma tutte potevano essere definite infames (ma questo aggettivo che oggi ha il significato di «estremamente spregevole», nella società e nel costume antichi di Roma aveva un significato abbastanza generico, comprendente categorie «prive di buona fama», tanto che potevano essere indicate da esso professioni o mestieri rispettabili, quali gli attori o i bottegai, e soprattutto gli osti). Ma la notte romana era movimentata anche da comportamenti brutali: ad esempio quelli di gruppi di teppisti, spesso ubriachi, che si divertivano ad assalire e depredare i passanti attardati su vie malsicure. Il fatto singolare è che di tale «passatempo» si compiacevano anche personaggi di alto rango, e persino alcuni imperatori quali Caligola, Nerone, Otone, Vitellio, naturalmente scortati a distanza da gladiatori di loro fiducia.

Ma non si vuole qui privare il lettore del piacere di leggere pagine piene di singolari notizie che rivelano un volto sconosciuto, o almeno trascurato, della vita d’una metropoli imperiale piena di sussiego, ma, nel suo sottomondo sociale e morale, simile a tutte le città del mondo, non solo antiche.

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