«Oddio, muoio! Che brutto morire in tribunale». Accasciato, la mano sul petto, le convulsioni e le grida. Lavvocato I., 60 anni da Roma, se lo stava portando via una crisi cardiaca e il pacemaker impazzito. Disteso sul marmo, al secondo piano del Palazzo di giustizia, fuori dallaula per unudienza a cui non è mai arrivato, circondato da colleghi che più che «coraggio» non potevano dire. Lui, lavvocato, ha dovuto gridare che «muoio!» più volte, prima che un dottore arrivasse da lui.
Quindici (15!) eterni minuti perché la guardia medica salisse i due piani (due!) di scale che separano il piccolo ambulatorio del tribunale dal gradino della dodicesima sezione civile su cui annaspava il legale. E mezzora prima che i paramedici del 118 lo prendessero in cura, con ossigeno e defibrillatore a portata durgenza. Trenta minuti, e il pronto soccorso del Policlinico che dista sì e no trecento metri. Dieci metri al minuto, che nemmeno da fermi.
E spiegalo, allavvocato, che «stia tranquillo», «non si agiti» e «va tutto bene». Va bene per niente. Di certo, va bene solo che il suo momento non era ancora arrivato.
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