Integrare gli immigrati, il miracolo di Barcellona

Agli stranieri vengono spiegate con determinazione le regole civiche da rispettare. Non si accettano prevaricazioni etniche né alcuna arroganza religiosa

Marcello Foa

nostro inviato a Barcellona

L’altro mondo è proprio lì, nel cuore della città. E per scoprirlo basta cambiare di poco il percorso prediletto dai turisti, che partendo dal mare risalgono le Ramblas e poi s’infilano a destra nelle affascinanti stradine medievali del Barri Gotic. Basta svoltare a sinistra. Anche qui i vicoli sono medievali, ma sei nel Raval, il quartiere degli immigrati. Più ti addentri e meno riconosci Barcellona. I negozi turistici si diradano fino a scomparire, camminando per incroci pachistani, filippini, maghrebini, ecuadoregni, senegalesi. Le vetrine si fanno sempre più etniche. Una macelleria islamica, poi un kebab turco, un supermercato asiatico, un ristorante indiano. Non è necessario consultare le statistiche per accorgersi che quasi il 50% dei suoi 45mila abitanti è costituito da stranieri, appartenenti a 70 nazionalità differenti, tra cui, in maggioranza, ecuadoregni, pachistani, filippini, marocchini. Solo cinque anni fa non era così: nel Duemila gli immigrati rappresentavano solo il 2,9% della popolazione di Barcellona, oggi sono quasi quadruplicati e toccano l’11,3%. Eppure non percepisci tensioni. I ragazzini giocano per strada, le donne passeggiano tranquillamente, le studentesse straniere, che adorano abitare al Raval, rientrano a qualunque ora della notte e nessuno le importuna. Nelle piazze e agli incroci, la gente si ferma a chiacchierare. C’è vita, vita da quartiere. E quando passa l’auto della polizia il clima non cambia, nessuno si irrigidisce. Non è come a Parigi, dove «le flic» è visto come un nemico.
E allora ti chiedi: perché Barcellona riesce dove gli altri stanno fallendo?
«La nostra fortuna è stata quella di non aver seguito un modello - spiega Joan Subirats Humet, docente di Scienze politiche all’Università di Barcellona -, il boom dell’immigrazione è stato così repentino da costringerci a gestire i casi a uno a uno, a trovare soluzioni originali». E, soprattutto, a fare appello allo straordinario senso civico della sua cittadinanza, senza distinzioni politiche. Quando si è posto il problema degli immigrati stranieri, all’inizio del Duemila, la maggioranza era del partito conservatore Convergencia y Unio, poi nel 2003 ha vinto la coalizione di sinistra, ma l’atteggiamento non è cambiato: quel che di buono era stato fatto è stato mantenuto. In nome dell’appartenenza. «La socialità e l’amore per la propria città sono così intensi da risultare superiori all’ideologia», spiega l’antropologo italiano Franco La Cecla, che da diversi anni vive nella capitale della Catalogna. «E finiscono per contagiare gli stranieri. Questo è un posto dove la gente si ferma per strada a parlare con chi chiede l’elemosina». Una città fiera della propria cultura, ma aperta, coinvolgente.
«Qui la politica dell’immigrazione non è decisa solo dai partiti e dal governo - continua La Cecla - ma è il risultato di un dialogo intenso con gli architetti, gli urbanisti, i sociologi, gli antropologi, gli economisti». Uno sforzo corale, incessante, e soprattutto, estremamente pragmatico. Le linee portanti sono due: una politica urbanistica intelligente, che permette non solo di evitare i ghetti di periferia ma di rendere la città sempre più funzionale alle esigenze della società neoterziaria, come spiega nell’intervista qui sotto Josep Acebillo, l’artefice dello straordinario rinnovamento urbanistico di Barcellona, iniziato negli anni Ottanta sotto l’impulso dei Giochi olimpici. In secondo luogo una politica d’integrazione condotta sul terreno, quartiere per quartiere, in cui la generosa accoglienza riservata agli immigrati va di pari passo con la rigorosa difesa dell’identità e dei diritti dei catalani.
Non è certo buonista o arrendevole la gente di Barcellona, come spiega Nuria Paricio, la direttrice di Tot Raval, una delle associazioni indipendenti, ma sostenute dal governo catalano, attive nell’integrazione degli stranieri.
«Quando arrivano qui gli immigrati ricevono molti benefici: possono mandare i figli a scuola, la sanità è gratis, vengono aiutati a trovare un alloggio - racconta la Paricio - ma al contempo vengono spiegate con molta determinazione le regole civiche da rispettare». La differenza, rispetto ad altri Paesi, è che non si tratta di un esercizio retorico, ma l’inizio di un percorso che viene svolto giorno per giorno. «Individuiamo i leader delle comunità etniche e lavoriamo con loro. I commercianti stranieri vengono indotti a iscriversi all’associazione di quartiere, dove conoscono gli altri negozianti della zona e con i quali iniziano a collaborare».
Non è un processo spontaneo. Istintivamente l’immigrato tende a frequentare la propria comunità e dunque a chiudersi, ma è proprio questo pericolo che Barcellona riesce a scongiurare. «Quando organizziamo le nostre riunioni, alcuni tendono a non partecipare, soprattutto marocchini e pachistani - spiega la direttrice di Tot Raval -. Li chiamiamo e ci dicono: «Ma perché un’associazione? A che cosa serve? Siamo qui per lavorare, non abbiamo tempo». Ma noi non molliamo. Siamo così insistenti, che alla fine vengono. E quando notiamo comportamenti che non ci piacciono, non abbiamo scrupoli nel richiamarli all’ordine». Una Barcellona generosa e al contempo esigente. Il Comune monitora costantemente gli umori della popolazione autoctona oltre che nel Raval anche negli altri quartieri dove la presenza straniera è significativa. E non appena coglie sintomi di disagio interviene per scongiurare il rischio che i locali possano sentirsi trascurati. Anche perché qui gli immigrati ricevono davvero tanto. Nelle scuole, dove le lezioni si svolgono in catalano, sono previste classi di inserimento e strutture efficienti per il doposcuola. Nel Raval sono stati creati 14 centri sociali, tra cui ambulatori, palestre, residenze per anziani, parchi giochi. L’associazione diretta dalla Paricio s’incarica persino di trovare lavoro ai disoccupati, spesso con successo. Ma a condizione che i patti vengano rispettati. Non si accettano prevaricazioni etniche, né alcuna forma di arroganza religiosa. A Barcellona, tanto per intenderci, non ci sono scuole islamiche, e anche i figli degli imam vanno in quella pubblica o, quelli più abbienti, in quelle parificate, come conferma al Giornale Mohamed Chaib, il primo deputato islamico eletto al Parlamento catalano. E con i giovani troppo esuberanti la tolleranza è bassa. Gli assistenti sociali li tengono d’occhio e fanno di tutto per dissuaderli dal vandalismo e dalla criminalità.
Certo non tutto è facile.

«Anche qui ci sono stati incidenti a sfondo razziale - commenta il professor Subirats Humet -, «ma finora sono stati sporadici. E oggi l’unico vero ghetto è quello di Pedralbes, il quartiere dei ricchi».
marcello.foa@ilgiornale.it
(1. Continua)

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