I nostri primi quarant’anni tra coerenza e spavalderia

Creato nel 1974 da Montanelli, il quotidiano di via Negri conserva lo spirito delle origini. Diamo voce alla maggioranza liberale e silenziosa: sempre controcorrente

I nostri primi quarant’anni tra coerenza e spavalderia

Quaranta, ma non li dimostra. Mi riferisco all'età del Giornale: che vide la luce nel 1974 e grazie a Dio continua a vederla nell'avvio del 2014. Secondo Guido Gozzano i quarant'anni erano «l'età cupa dei vinti». La valutazione del tempo è cambiata, adesso i quarantenni si presentano come annunciatori di liete novelle.

Il Giornale non ha queste pretese, ma conserva il piglio spavaldo che lo contrassegnò alla nascita e che dopo d'allora lo ha sempre accompagnato. Certo molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e anche dell'Olona. Creato e a lungo impersonato da Indro Montanelli, questo nostro foglio volle sùbito essere «politicamente scorretto». Così scorretto che tutti i politicamente corretti della Penisola, i cloroformizzati dal pensiero unico d'un progressismo salottiero, gli si avventarono contro. E Montanelli fu accusato d'essere reazionario, insensibile ai nobili moti popolari, in una parola sintetica fascista (divenne rispettabile solo dopo aver litigato con Berlusconi).

Queste pagine diedero voce ai senza voce, ossia a quella maggioranza silenziosa che non trovava una tribuna dalla quale esprimere i suoi sentimenti. Una tribuna noi gliel'abbiamo data. Fossimo vanitosi, potremmo sottolineare che i grandi eventi del dopoguerra ci hanno dato ragione. Il muro di Berlino è crollato, l'impero di Mosca si è disgregato, come ideologia il comunismo appartiene all'archivio della storia, e i pochi che audacemente lo ripropongono come medicina salvifica per le difficoltà attuali sono degni non delle cattedre che talvolta occupano ma del neurodeliri. Pochi, ho precisato, questi convinti nostalgici. Sterminato è invece il numero di coloro che, dopo essersi crogiolati nel bozzolo della sinistra e averne lodato l'ideologia fallimentare, continuano a ritenersi gli eletti, i giusti, i Maestri del pensiero. Il Giornale è sempre stato estraneo a questo intreccio di finzioni e di ambizioni. Pur nei mutamenti di uomini e di idee che la realtà sempre comporta può rivendicare l'indubbio merito - che di rado gli viene riconosciuto - della coerenza.

Non indugio nel tratteggiare le personalità di coloro che dopo Montanelli si sono avvicendati in via Negri, basta qualche cenno. Vittorio Feltri, spadaccino spavaldo della polemica ha saputo non solo conservare l'eredità di Indro, ma accrescerla per il numero di copie vendute. È toccato anche a me - insieme al mastino Maurizio Belpietro - di avere per qualche anno il comando dell'agile vascello giornalistico che aveva navigato nelle acque tempestose della guerra fredda. Insieme - Belpietro e io - abbiamo cercato di tenerne salda la rotta e alte le insegne. Adesso il timone è nelle mani di Alessandro Sallusti del quale si può pensare, dire e scrivere tutto il male possibile, ma non che sia, nel dibattito, confuso e reticente, poco leale. Montanelli aveva il fioretto - ma poteva fare molto male - e qualcuno rimprovera a Sallusti l'uso della mazza ferrata. Il rimprovero gli viene spesso rivolto da chi ama, come arma, il pugnale. Non sono sempre d'accordo con Sallusti. Personalmente ho stima e apprezzamento per Giorgio Napolitano. Siamo uomini liberi in un giornale libero.

Il Giornale - al di là delle certificazioni giuridiche - è di Silvio Berlusconi. Più ancora. Il Giornale esiste perché Silvio Berlusconi lo salvò quando era in procinto di chiudere i battenti. Tanti avrebbero stappato lo champagne se questo foglio controcorrente fosse defunto, tanti hanno stappato lo champagne per l'estromissione ufficiale del Cavaliere dalla ribalta politica. Molti, troppi cantori della democrazia l'apprezzano se tutti condividono le loro idee.

Non ammiro gli slanci adoranti di alcuni berlusconiani. Ma quando vedo l'arroganza e la settarietà intolleranti di alcuni antiberlusconiani finisco per pensare che abbiano ragione con il loro «meno male che Silvio c'è».

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