Belén in tribunale? Come dall'estetista

La showgirl in attesa di deporre si lamenta: "Se c'è tanto da aspettare magari ripasso"

«Se c'è ancora tanto da aspettare magari passo un altro giorno...». La convocazione in aula è ormai come un appuntamento per la ceretta, almeno per Belén Rodriguez. «Chiamatemi appena c'è un buco» avrebbe potuto aggiungere. Era scocciata, annoiata, furiosa, incinta al terzo mese e impegnatissima fuori dal Tribunale di Milano, evidentemente. È arrivata alle nove e trenta, è stata ascoltata solo alle undici e un quarto e non c'era nemmeno la De Filippi a darle i voti dietro a quegli inospitali banchetti di legno. Il processo Ruby è sempre più fuori da ogni comprensibile grammatica sociale: l'ex sottosegretario Daniela Santanchè ben disposta con giudici e giornalisti, la soubrette argentina indispettita da entrambi che rifiuta di farsi «riprendere» in aula dopo essere stata immortalata all'ingresso, all'uscita, durante l'attesa e, in generale, per tutta la sua vita (da telecamere ufficiali e meno). Aveva un broncio indelebile, le scarpe da maschietto, come calze gli orrendi «fantasmini» e una camicetta puramente simbolica (nessuno dei quattro bottoni era allacciato) sulle rotondità sferiche da futura mamma. Odiava tutto e tutti: gli avvocati, i giudici, i giornalisti (soprattutto i giornalisti), il marmo dei corridoi, il legno delle panche, la macchinetta del caffè, l'ufficio di cancelleria, che non sapeva dove fosse, cosa fosse, se ci fosse ma lo odiava lo stesso. Le si è rallentato in bocca l'accento argentino e le si è incupita la voce dietro alle poche parole che ha detto. Una Patty Pravo da Colorado Cafè.

Alla chioma nervosamente sbattuta da un lato all'altro della faccia ha affidato tutto il suo dissenso. Due ore di attesa per una deposizione di pochi minuti «Ho fatto il mio dovere civile... Berlusconi? Mai visto di sera... Mai stata ad Arcore, solo a villa Certosa una volta nel 2007... Mai conosciuto Ruby... Io in consiglio regionale? Anche no...». Si scrolla di dosso i cronisti e scappa scavalcando le transenne di corso di Porta Vittoria come in uno spot dell'olio Cuore di qualche anno fa. Ripara in un taxi e via. Tutta un'altra storia rispetto a Daniela Santanchè: anche la sua deposizione è durata qualche attimo (come pure quella del presidente di Medusa Carlo Rossella), come, d'altra parte, tutte quelle di chi racconta che ad Arcore «mai viste scene di sesso, o festini o giovani ragazze». Interventi lampo, e «nessuna domanda» da parte della pubblica accusa. Mai. Però inseguita sulle scale del tribunale la Santanchè parla di politica, di magistratura, del partito degli onesti, di Dell'Ultri, di Alfano e, ancora, del reality Ruby: «Io ho fatto tanto per le donne e per la loro dignità, se solo in questo processo avessi visto una vittima mi sarei ribellata, ma non ne ho vista nemmeno una».

È incuriosita dalla dinamica del processo, dai magistrati, dai tempi, dalle modalità. Perfino dal processo che si svolge, poco prima, a tre delinquenti «veri», nella stessa aula in cui di solito vanno in scena i vip con tutta la loro «cipria».

Tre uomini chiusi in gabbia, con le facce segnate, gli zigomi appuntiti, le manette appese alle sbarre e ben sorvegliati dalla polizia penitenziaria. È stato come vedere i protagonisti di Csi piombare in una puntata di Sex and the City. Ma è finita presto: via i tre «ceffi», dentro le star. Malocchio e rosario.

L'arrabbiata Belén (che forse, di norma, a quell'ora è più abituata a fare pilates), la collaborativa, pazientissima Santanchè, lo spaesato Rossella (di certo più adatto a sorseggiare un Martini sulla spiaggia di Miami che a testimoniare in una grigia aula di tribunale mal illuminata dalla luce al neon). «Non ho mai visto scene equivoche durante le serate a casa di Silvio Berlusconi» ha spiegato l'ex direttore de La Stampa. «Una volta a una ragazza ho detto che aveva una faccia adatta a fare cinema. Tutto qua».

«Sappiamo dalle intercettazioni che quella ragazza era Melania Tumini e lei ha raccontato di travestimenti, di atteggiamenti provocanti, di donne che mostravano il sedere» prova a ridestarsi l'accusa. «La Tumini può dire quello che vuole» conclude Rossella.

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