Era la sera del 21 agosto del 1968 quando nelle campagne di Firenze, a Castelletti di Signa, furono uccisi da una Beretta calibro 22 Barbara Locci, casalinga di trentadue anni e Antonio Lo Bianco, muratore ventinovenne siciliano, impegnati ad amoreggiare all'interno di un'Alfa Romeo Giulietta. Quella stessa calibro 22 Long Rifle Winchester con la lettera «H» punzonata sul fondello che diventerà l'arma di sedici omicidi da quell'agosto del 1968 fino all'8 settembre del 1985. L'arma del mostro di Firenze. Pochi però sanno sono che nel sedile posteriore di quell'Alfa Romeo Giulietta, luogo dell'efferato delitto, dormiva un bambino, il figlio di Barbara Locci: Natalino Mele. Era nato il giorno di Natale del 1962 e aveva appena sei anni. Non è solo l'unico sopravvissuto al mostro ma anche l'unico ad averlo visto in faccia. Un'ora dopo l'efferato delitto, il piccolo suonò alla porta di un casolare di via Vingone 154 a due chilometri dal luogo dell'omicidio e di proprietà della famiglia De Felice. «Aprimi la porta - gridò - perché ho sonno e ho il mio babbo ammalato a casa e la mì mamma e lo zio che sono morti in macchina». Era senza scarpe e con solo dei leggeri calzini ai piedi. E non era arrivato solo davanti al casolare. Anche la sua testimonianza confermò il sospetto che fosse stato un uomo misterioso a portarlo in via Vingone 154. Un uomo che, per farlo stare tranquillo, gli cantava «La tramontana» una famosa canzone dell'epoca cantata da Antoine. Di quell'omicidio fu incolpato Stefano Mele un muratore sardo, il padre di Natalino, che agì, secondo l'accusa, per motivi di vendetta personale nei confronti della moglie colta in flagranza con l'amante. L'uomo in realtà era innocente. Raccontò più tardi al figlio e agli inquirenti di aver rivendicato l'omicidio solo per lavare socialmente l'onta del tradimento della moglie. Con lui incarcere del resto quella beretta calibro 22 continuò a sparare e uccidere. É però la storia di Natalino a destare stupore, triste paradigma dell'abbandono da parte di tutti: familiari e Stato. La storia di un bambino che con solo le calze ai piedi e nel bel mezzo della notte ha attraversato la campagna fiorentina sulle spalle di un mostro. E che lo Stato ha usato solo come testimone disinteressandosi del profondo tormento che viveva al suo interno. Uno Stato che non è riuscito neppure a trovare dalla sua testimonianza drammatica elementi che potessero essere utili alle indagini sul mostro di Firenze. Così Natalino dopo aver perso la madre nell'omicidio ed avere il padre in galera venne affidato quasi per vent'anni ad un istituto. Della famiglia non conosce che gli zii e le uniche volte che lo Stato si interessa a lui è per interrogarlo e poco importa se all'epoca dei fatti ha solo sei anni. Memorabile, a questo proposito, è la sua deposizione durante il processo l'8 luglio del 1994, ventisei anni dopo l'omicidio della madre, in cui non si capisce dall'atteggiamento del Pubblico Ministero se Natalino sia una vittima o il colpevole. Perchè l'interrogatorio, incentrato sui ricordi di bambino, pretendeva che il racconto fosse preciso e privo di contraddizioni. Si disse disponibile anche all'ipnosi, riuscì solo a scatenare ilarità tra i presenti. Natalino Mele, in tutti questi anni, cerca di sopravvivere ai ricordi affidandosi a lavori saltuari che non gli procurano certo una rendita capace di far fronte ad una vita decorosa. Da quel 1994 lo Stato lo ha abbandonato al suo destino, disinteressandosi di una vittima innocente. Ha avuto una compagna, Loredana, che soffre di epilessia, il cui figlio oggi diciasettenne vive in una struttura protetta. L'otto marzo del 2011 poi la casa di Natalino e Loredana va a fuoco e da quel momento si perdono le tracce di quell'uomo che non è mai riuscito a vivere una vita dignitosa. Si cerca in quella che fu l'ultima dimora e residenza di Natalino ma senza successo.
Quell'uomo, comunque mite e rassegnato, non interessa a nessuno e appare a oggi scomparso; un invisibile senza fissa dimora. Un uomo che forse ha trovato come unica modalità di sopravvivenza il diventare invisibile, dimenticato da tutti per non aver commesso nulla.Giovanni Terzi@terzigio
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