La crisi di Siena manda in tilt il Pd

Le dimissioni del sindaco, legate alle difficoltà del Monte Paschi, aprono un conflitto senza precedenti

La crisi di Siena  manda in tilt il Pd

La triste giornata che vedrà sfumare la presa di Parma e di Palermo si apre a Largo del Nazareno, la sede nazionale del Partito democratico, con una notizia a dir poco pessima: Siena è caduta, ad appena un anno dalle elezioni il sindaco ha dovuto gettare la spugna, la città è in crisi e senza bilancio. E siccome Siena significa prima di tutto Monte dei Paschi, la «banca rossa» per eccellenza nonché il terzo istituto bancario del Paese, l'allarme è scattato all'istante.

Franco Ceccuzzi, democratico di rito bersaniano, si è dimesso domenica notte, al termine di un infuocato consiglio comunale che ha sancito la rottura della sua maggioranza: 8 consiglieri del Pd (7 provenienti dalla Margherita, uno vicino alla Cgil) avevano infatti votato con l'opposizione contro il bilancio presentato lo scorso 27 aprile. Motivo del dissenso: il rinnovo dei vertici del Monte. L'altra notte il sindaco dimissionario li ha pubblicamente bollati come «politicanti, traditori e voltagabbana», ricavandone un'ovazione dal pubblico presente e l'ordine di sgombero dell'aula da parte del presidente del consiglio comunale (Alessandro Piccini, uno dei «ribelli»).

Non era mai accaduto che le tensioni interne alla sinistra senese esplodessero al punto da far cadere sindaco e giunta a dodici mesi dal voto. Il Comune di Siena, insieme alla Provincia, nomina 13 dei 16 consiglieri della Fondazione che a sua volta controlla il 37,5% del Monte dei Paschi. E siccome Comune e Provincia sono da sempre roccaforti rosse, il Monte è da sempre la banca della sinistra italiana. Ma litigare furiosamente in pubblico e portare la città alle elezioni anticipate - sempre che la lite non si ricomponga - non è certo il modo migliore per gestire una banca che è anche - e per Siena soprattutto - il polmone finanziario di una delle province più ricche d'Italia.

Lo scontro era scoppiato un paio di mesi fa, in occasione del rinnovo dei vertici del Monte Paschi: i «ribelli» dell'ex Margherita non avevano condiviso i nomi che il sindaco Ceccuzzi aveva deciso di indicare alla fondazione Mps per il nuovo Cda di Banca Monte dei Paschi di Siena. Tra questi, anche quello del neo presidente del Monte, Alessandro Profumo. Ceccuzzi difende le sue scelte: «Se dopo il mercoledì nero che ha portato la Guardia di Finanza a Rocca Salimbeni non ci fossero stati Alessandro Profumo e Fabrizio Viola a rassicurare i mercati, non ci sarebbe stato un giovedì di speranza», ha detto domenica sera in Consiglio comunale. Aggiungendo che chi l'ha criticato in questi mesi non lo ha fatto «perchè non riteneva Profumo adeguato, ma, al contrario, perchè è troppo adeguato e soprattutto non condizionabile». Accuse pesantissime, che difficilmente resteranno senza conseguenze.

Intanto nel partito toscano volano gli stracci. Il Pd di Siena ha annunciato che è stato presentato un esposto alla commissione dei garanti del partito contro i dissidenti. E il segretario Giulio Carli ha anche chiesto al gruppo toscano consiliare del Pd le immediate dimissioni dal consiglio regionale di Alberto Monaci, giudicato «la regia politica della caduta di Ceccuzzi», leader dei ribelli margheritini ed ex bancario del Monte dei Paschi, nonché marito di Anna Gioia, una delle consigliere che hanno affossato il sindaco.
La quale non arretra di un millimetro e si dice delusa perché «dopo tutti gli sforzi fatti per garantire una nuova classe dirigente alla città, invece di procedere ad una riflessione approfondita sulle difficoltà come richiesto, si vuole andare avanti a testa bassa per ingannare un discorso nuovo che non c'è». La prosa è stentata, ma il succo è chiaro: la redistribuzione del potere non è andata come richiesto (o sperato) da tutte le componenti della maggioranza, e il pezzo di Pd che non proviene dal Pci vuole prendersi la sua quota. A tutti i costi.

La Toscana è già il teatro del continuo e stucchevole duello fra il «rottamatore» Matteo Renzi (ex Margherita come i ribelli senesi) e il governatore Enrico Rossi, bersaniano duro e puro, che non perde occasione, ogni volta che il sindaco di Firenze apre bocca, di dire tutto il contrario e conquistarsi così un trafiletto sui giornali.

Il risultato è che il Pd è diventato una confraternita di bande che si guardano in cagnesco. Ora tocca a Siena, e la guerra esplode su una questione cruciale come la gestione di una grande banca. Per Bersani, nel giorno della vittoria di Grillo e di Orlando, proprio una brutta grana.

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