Io sono fra quelli che non si sono meravigliati. Era sicuro che così fosse: Silvio Berlusconi non si ricandida per il governo, anche se probabilmente si ricandiderà al Parlamento e chiude la partita convocando le primarie con un ultimo gesto da monarca costituzionale. Questo significa che Berlusconi pone la corona d'alloro sulla testa di Alfano nominandolo candidato primo ministro? Su questo non giurerei. Le variabili sono ancora molte e non tutte note, inutile giocare agli indovinelli.
Vediamo invece, per quanto è possibile, di trasferirci virtualmente nella testa di Silvio Berlusconi con un programma virtuale che nel mio caso funziona con un solo strumento: gli occhi. Incontrai per caso Berlusconi la tragica sera del suo ritorno da Bruxelles, quando i leader europei lo ignoravano infliggendogli un'umiliazione amara e stressante e lo guardai negli occhi che non erano soltanto quelli di un uomo esausto e frustrato, ma anche di uno che ha capito che non si gioca più con lo stesso mazzo di carte con cui era cominciata la partita. Aveva visto che il presidente della Repubblica lo aveva surclassato prendendo e sviluppando come un monarca che fa la sua politica estera i contatti con tutti i leader europei e probabilmente anche con Obama, bypassando il suo primo ministro. La nostra Costituzione non prevede che il presidente del Consiglio sia sostituito dal capo dello Stato, eppure è quel che avvenne a Bruxelles dove Berlusconi aveva fiutato l'odore dell'accerchiamento. Mi disse quella sera quel che avrebbe poi detto a tutti: «Basta, ho chiuso. Non correrò mai più per il governo, lascerò che lo facciano altri. Sono anche fisicamente stanco e la mia resistenza non è più quella di prima».
Gli chiesi se avrebbe dato un annuncio ufficiale in questo senso. Disse che avrebbe dovuto superare montagne di resistenze, avrebbe dovuto ascoltare, convincere, fare un percorso psicologico oltre che politico, ma il risultato finale - disse - sarebbe stato quello: chiusura del suo ciclo storico, largo a chi viene dopo, giovane o vecchio che sia.
La fine è nota. Il passo indietro, definito anche il passo laterale. La successione soft al governo Monti al quale garantiva anche la maggioranza parlamentare necessaria. Ma era inevitabile che tutti i pezzi del Pdl entrassero in una fase di stress: li teneva insieme una sola calamita, un unico magnete e quel magnete era Silvio Berlusconi. Togli il magnete e tutti i pezzi crollano. La fusione fredda fra tutte le anime della destra berlusconiana non era mai avvenuta, se non nel nocciolo duro di Forza Italia con una generazione di giovani militanti che si sono sentiti abbandonati dal padre.
Con loro soffrono anche tutti coloro che sanno come il loro destino e il loro futuro stia tutto e soltanto nelle mani di Berlusconi, che ormai tutti chiamano Essebì. Ed Essebì si è trovato coinvolto in una nuova stressante traversata fra le sue truppe pervase dalla frustrazione, dai rancori repressi, dalle nostalgie arrabbiate, dalla pena del declino. È stato così che ha cominciato a diffondersi l'espressione «torniamo a fare politica», sinonimo di «siamo orfani, facciamo massa per sopravvivere».
Essebì mi è sembrato in questa fase un giocatore solido e molto paziente. Ma nella sua mente penso che non abbia mai tentennato. La battaglia da combattere in Europa ha cambiato le regole del gioco e lui è un realista e nelle questioni politiche responsabile. Uscito dal governo ha vinto la battaglia dello spread, perché i fatti hanno messo a tacere la voce ridicola secondo cui lui stesso era la causa dello spread, che invece ha seguito il suo corso a zigzag anche se adesso, finalmente, dopo un anno di cure da cavallo, sembra si sia ridotto. Essebì sa che la cura da cavallo si fa bastonando il cavallo con le tasse e lui non è disponibile per una politica delle tasse contro la quale si è sempre schierato e ancora si schiera.
E dunque: subbuglio in casa, irritazione con tutti quelli che hanno preteso di parlare a suo nome e spacciandosi per lui, terreno impraticabile nell'area governativa dove si può tentare di alzare talvolta la voce col governo Monti, ma sempre sapendo che la strada è quella e siamo solo all'inizio.
Due settimane fa l'ho incontrato di nuovo per una chiacchierata e l'ho trovato stanco ma con le idee chiare. Come se sentisse di aver compiuto quasi per intero la «exit road» che lo avrebbe portato fuori dall'ipotesi di una candidatura a governare. C'era ancora da ascoltare, far sfogare tutti, dare segnali di vitalità, ma la decisione era presa. Mi ha confermato che non aveva nessuna intenzione si tornare sui suoi passi e ha accennato - se ho capito bene - alla possibilità di dar vita a un raggruppamento liberale che tenga alta la bandiera almeno del mito della rivoluzione liberale che non fu fatta e purtroppo nemmeno tentata.
Ha detto che non valeva la pena perdere tempo dietro ai sogni di governo: «Non sarà mai possibile alcuna riforma radicale se prima non si modificano i poteri del presidente del Consiglio il quale, caso unico al mondo, non ha nemmeno il potere di assumere o licenziare ministri, essendo sempre sotto la tutela del capo dello Stato». Governare oggi è possibile soltanto se si lavora sotto la tutela e la guida del Quirinale: «Non mi consentivano di fare decreti legge, ogni mio atto doveva essere supervisionato e approvato in precedenza». Le leggi sgradite vengono poi impugnate e portate alla Corte Costituzionale che le boccia per motivi politici.
Aveva l'aria di dire: ci ho provato, ho commesso degli errori, ma credo che nessuno oggi abbia gli strumenti per poter fare da solo quel che ho cercato di fare da solo, e dunque getto la spugna. È però evidente che ha anche voglia di restare in pista, non se ne va alle Bahamas, ma semmai a Palazzo Madama.
Adesso la partita è aperta perché quasi tutto può succedere e bisogna vedere che genere di primarie si preparano e che cosa ha in mente Essebì per il futuro degli altri. Dunque, quando ieri è stata diffusa la decisione finale, ci siamo tutti trovati di fronte a un aspetto della personalità di Essebì che è stata spesso nascosta e poco valutata: è un uomo che sul piano mediatico si è mosso spesso in modo sorprendente e persino spavaldo, almeno in apparenza.
Ma la risultante di tutti gli aspetti clamorosi del suo carattere è stata zero. Nessun predellino, nessuna chiamata alle armi, nessun ridotto in cui resistere a oltranza, ma un «liberi tutti» che si sta trasformando in un paradossale «tutti liberali».
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