"Due giorni su sette curavo negli altri cinque uccidevo"

Il chirurgo cacciatore dall'età di 3 anni: metà della vita col fucile, 16mila prede. "Il mio record: cinque cinghiali, uno di 186 chili, abbattuti con tre sole cartucce"

Piero Cilotti
Piero Cilotti

La braccata? Il solengo? Lo scaccione? La tesa? Il padule? Il cosciale? Ma come diavolo parla questo benedetto uomo che non si rade dal 1959, da quand'era studente universitario, e ora si ritrova col volto foderato da una barba alla Nicola Bombacci, bianca anziché nera per via dei 76 anni? Il professor Piero Cilotti, nato a Pisa, laureato in medicina nel 1961 con 110 e lode, tesi pubblicata e borsa di studio per il miglior lavoro sul liposarcoma dell'orbita oculare, poteva diventare il più famoso chirurgo oculista d'Italia, come Rosario Brancato, professore emerito del San Raffaele di Milano, luminare dell'oftalmologia che mosse i primi passi con lui. Ma non ha mai voluto entrare in ruolo. La cattedra universitaria lo avrebbe distolto dalla sua vocazione primigenia, quella cui ha dedicato l'intera esistenza: la caccia.
Nei 45 anni di professione medica, s'era perciò organizzato la settimana lavorativa nel modo seguente: due giorni in ospedale, «il martedì e il venerdì, quando vige il silenzio venatorio»; i rimanenti cinque per boschi, campi e paludi a sparare. Fanno 5.600 giornate trascorse a braccare il cinghiale e ad abbattere selvaggina di pelo e di penna in tutta Italia, isole comprese, con i suoi 36 fucili, incluso quello ad avancarica laminato in oro ereditato dal trisnonno Giovacchino, morto nel 1870. Certo, come latifondista ha sempre potuto permetterselo: tenuta di 96 ettari a Santo Pietro Belvedere, la fattoria di Piedivilla, che produce il Colombano cantato nel Seicento da Francesco Redi nel ditirambo Bacco in Toscana; altri 20 ettari a Montecchio di Peccioli, il podere Villa, dove vive da quando s'è separato dalla moglie Fina Cionini Ciardi, che gli ha dato tre figli («la misi incinta la prima notte di nozze, sono sempre andato a colpo sicuro») e che è rimasta a vivere nella loro dimora di Firenze.
Basta entrare nella casa di caccia diventata dal 1998 la sua solitaria residenza per capire di che pasta sia fatto Cilotti. Niente riscaldamento: solo un tronco d'albero che arde lento nell'immenso camino. Appesi al muro, 11 teste e 112 denti di cinghiale e decine di corna strappate a mufloni, caprioli, daini. Sullo scrittoio persino il portapenne è ricavato da una zampa di cinghiale che si regge sullo zoccolo fesso. In una vetrina, esemplari imbalsamati di falco pescatore, coturnice appenninica e mignattaio, «quest'ultimo ha più di mezzo secolo, oggi è specie protetta e quasi estinta».
Alle 10 del mattino ha già apparecchiato in tavola per giornalista e fotografo, costretti tre ore dopo a obbedire ai suoi ordini e ad adattarsi a un menù sibaritico che avrebbe stroncato persino Edoardo Raspelli: crostini con fegato di fagiano, pappardelle al sugo di cinghiale, capriolo in umido con le olive gremignole e contorno di patate arrosto, composta di pesche e susine aromatizzata con melangolo, roba che ti tocca consultare lo Zingarelli per capire che cosa stai assaporando. Cantuccini intinti nel vin santo per finire. Il tutto prodotto con le proprie mani, da signore medievale chiuso nella sua splendida autarchia: «Non vo al supermercato e non sparo per hobby. Tutto quello che ammazzo, mangio. Le bestie le eviscero e le squarto da me. Ho cinque congelatori sempre pieni. Gli scarti sono per la pappa di Roby, il mio setter».
La prima foto della sua vita, che funge da copertina del libro Dalle starne ai cinghiali, memorie di un cacciatore (Sarnus), lo ritrae all'età di 11 mesi, sulle ginocchia della madre, con due starne morte intorno al collo a mo' di stola. Cacciatore era il padre Mario, docente di anatomia patologica all'Università di Pisa e specialista in malattie infettive, che si trasferì a Pontedera per essere più vicino alle aree venatorie. Cacciatrice era la madre Luisa Sbrana, segretaria nel rettorato del medesimo ateneo. Cacciatori, in linea paterna, furono i nonni Antonio, pretore a San Miniato, e il bisnonno Leopoldo, ingegnere. Cacciatore il trisnonno Giovacchino, astronomo e giurista. Cacciatore era il padre del trisavolo, Antonio, notaio, che aveva sposato Teresa di Rinaldo Amidei, discendente dalla famiglia che nel XIII secolo scatenò a Firenze la contesa fra guelfi e ghibellini. Cacciatore era Giovambattista, padre del trisnonno, vicario criminale a Marradi e riformatore del Codice leopoldino. La famiglia Cilotti nel 1512 fu la prima a riottenere dai fiorentini le patenti di caccia dopo oltre un secolo di dominazione medicea su Pisa.
Non ha avuto scelta.
«Era un amico di caccia financo il mio maestro, il professor Marcello Focosi, direttore della clinica oculistica dell'Università di Pisa, che mi portò con sé a Firenze quando ebbe la cattedra all'ospedale di Careggi. Rimasi al suo fianco per più di tre lustri. Poi preferii operare alla casa di cura Suore dell'Addolorata di Pisa e infine all'ospedale Serristori di Figline Valdarno perché lì potevo organizzarmi in base alle mie insopprimibili esigenze venatorie».
Non si sentiva in colpa nel dedicare ai malati solo due giorni su sette?
«No. Pur curandoli con la massima perizia, ero sicuro che in vecchiaia non avrei mai rimpianto abbastanza di aver sgobbato troppo e cacciato poco. Ho seguito l'insegnamento di mio nonno: il lavoro è un mezzo, e non un fine. Votarsi totalmente a esso debilita l'uomo e lo rende simile alla bestia».
Il suo primo ricordo d'infanzia?
«Risale al 1940. Avevo poco più di 3 anni. Fui ammesso alla tavola dei “grandi”. Durante i pasti i miei nonni e i miei genitori parlavano unicamente di caccia: “Ho trovato le fatte della lepre nella piaggia vicino al cimitero. Ho visto tantissime quaglie al Pian del Roglio”. A 4 anni già facevo lo scaccione».
M'illumini.
«Col tamburo di latta, seguivo un vecchietto e battevo furiosamente la mia bacchettina di ferro per indirizzare i cinghiali verso la filata dei cacciatori».
Rammenta la sua prima caccia?
«Sì, diamine! Con papà e mamma nella pineta del Tombolo, 22 febbraio 1939. Ammazzammo un cardellino, un fringuello e un rampichino, un uccellino oggi quasi estinto».
Come fa a ricordarsi la data?
«Ho buona memoria. E comunque dal 1947 sul mio diario di caccia ho scrupolosamente annotato tutte le giornate nelle quali ho incarnierato anche solo una pispola: data, località, partecipanti alla battuta, prede. Il che mi fa dire che, tra uscite fruttuose e infruttuose, ho trascorso metà della vita a caccia».
Di quante prede stiamo parlando?
«Oltre 16.000».
La più ambita?
«Il solengo di macchia buia. Lo ribattezzai così. È il cinghiale che non sta in branco. Pesava 186 chili. Ero con i principi fiorentini Filippo e Giorgiana Corsini nella loro tenuta di Marsiliana. Giornata memorabile. Una femmina e un porcastro uccisi con un solo colpo, d'infilata. Un'altra femmina e un altro porcastro uccisi con un secondo colpo. Dopo mezz'ora il solengo. Tre cartucce a palla per cinque cinghiali. Due centrati al cuore e tre alla testa».
Poveri cinghiali.
«Qui sono una mezza calamità: aumentano del 200 per cento l'anno».
Non ne ha mai risparmiato uno?
«Quando mi compare una troia seguita dai piccoli striati, non tiro mai, la lascio passare. Idem se è pregna, con la pancia che struscia per terra».
Ma lei sparerebbe a un cavallo che vive allo stato brado?
«E come potrei? Domavo una decina di puledri l'anno. In gioventù fui reclutato come cavallerizzo generico per i film negli stabilimenti cinematografici Pisorno di Tirrenia, fondati dal regista Giovacchino Forzano, mio lontano parente, poi ceduti a Carlo Ponti. Andai pure a cena con Sophia Loren».
Cerco una logica: il cinghiale sì, il cavallo no.
«Senta, solo nella Giara di Gesturi, in Sardegna, i bracconieri ammazzano i cavalli bradi per la carne. Ma questa è barbarie. Io ho sempre rispettato le specie in pericolo».
Per esempio?
«I granivori e gli insettivori: cince, luì, pettirossi, capinere, sterpazzole, magnanine, occhiocotti. E poi gli usignoli di padule, dal canto melodioso, gli aironi, i fenicotteri. Invece, se non fosse proibito, tirerei volentieri ai gabbiani, specie immonda. Mangiano tutto: nidi, lucertole, rospi. Atterrano con un colpo d'ala gli uccelli migratori e poi li sbranano».
Ha mai provato pena davanti a una preda agonizzante?
«Se pensassi di provare pena, mi guarderei bene dall'ucciderla. Porto sempre con me il pugnale d'accoro».
Traduca.
«Accorare, trafiggere il cuore. Me n'è rimasto uno di famiglia che apparteneva ai Navajo. Una coltellata e via».
A che ora parte per la caccia?
«D'estate alle 5».
E torna?
«Quando ho finito, a notte fonda».
Esce da solo?
«Quasi sempre. Ho la disgrazia di tre figli che hanno tradito la vocazione di famiglia. Peccato, soprattutto per Antonio: a 12 anni uccideva merli e tordi al volo. Oggi è medico, insegna endocrinologia all'Università di Firenze. Ho trovato un'erede adottiva in Silvia Chiarugi, figlia di un mio amico. Gran tiratrice, mira infallibile. Ha fatto secco con un solo colpo un cinghiale da 160 chili e poi l'ha sbuzzato da sé».
«La caccia è una passione intensissima che nasce tra l'uomo e l'animale e che si appaga nel possederlo totalmente. Io sparo soltanto quando sono certa che il mio colpo è mortale», ha dichiarato all'Adige la contessa trentina Maria Luisa Pompeati.
«Bella codesta frase. Ma esagerata. Ho visto cinghiali col cuore squarciato come un garofano correre per altri 200 metri e più. Tu non sai mai se un animale morirà sul colpo».
La nobildonna ha reazioni sconcertanti: «Corro da lui, prendo tra le mani la sua testa, l'accarezzo, arrivo fino a baciarlo, in certi casi lacrimo di gioia». Capita anche a lei?
«Mai. I tedeschi hanno queste tradizioni antichissime: mettono il pasto in bocca alla preda, oppure una frasca di abete o di quercia tra le fauci. Poi suonano il corno da caccia. C'è anche nella Chanson de Roland». (Si mette a recitarla in francese). «Molto più civili di questi bastardi di cacciatori italiani».
Perché dice così?
«Hanno completamente distrutto la fauna ornitica, dando poi la colpa ai diserbanti. Almeno 300 specie sparite».
Avevo capito che lei è cacciatore.
«Ero nel movimento anticaccia, abbiamo fatto togliere la licenza a 700.000 sciagurati. Purtroppo i Verdi sono come i pomodori: poi diventano rossi. Ne sono uscito».
Ha mai impallinato nessuno?
«Se sparassi alla garibaldina, potrei abbattere 30 cinghiali in un giorno. Ma sono sempre stato molto prudente, anche perché, da medico, m'è toccato veder morire cinque compagni di battuta senza poter far nulla».
Lei ha rischiato di lasciarci la pelle?
«Sì, nel 2007, ma per un volo di 15 metri nel dirupo con la mia jeep. Sette vertebre fratturate, altre otto ossa rotte. Dovrei essere tetraplegico. Dopo 40 giorni ero già su una seggiola a fare la posta ai cinghiali. Mi hanno aggredito tre volte. Da una femmina di 90 chili, che mi aveva azzannato, mi sono salvato infilandole in gola il fucile scarico».
La caccia è uno sport?
«Nooo! Lo sport è triviale».
Allora che cos'è?
«Istinto. L'uomo nasce cacciatore. La caccia ha fatto progredire la civiltà».
È giusto che voi possiate entrare nei terreni altrui?
«È vergognoso. Si tratta di una legge voluta con finalità belliche dal Duce, il quale sosteneva che un cacciatore vale 10 soldati. Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia dal 1945 al 1946, la mantenne in odio alla proprietà privata. La caccia deve essere riservata solo ai possidenti terrieri. È dal 1956 che rimbosco le mie tenute con essenze gradite ai cinghiali e ai caprioli. Le pare che abbia speso un capitale per favorire gentaglia che spara a qualsiasi cosa le capiti a tiro? Includo nella categoria dei bracconieri molte guardie giurate volontarie che ammazzano volentieri anche gli istrici».
Fate strage in riserva. Bella fatica.


«È una caccia che disdegno. Su animali allevati... Puah, è tiro a segno».
Mi sa che il Movimento 5 Stelle vi toglie la licenza.
«Me ne frego. Beppe Grillo è un bischeraccio».
(644. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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