Dimenticati. Non da Dio, che per loro che non hanno un dio sarebbe forse il male minore, ma dall'unica divinità in cui gli sia consentito credere per legge: la Repubblica Popolare di Cina.
Dormono su giacigli improvvisati, mangiano quel poco che viene dalla pietà di chi li vede vagare senza meta. I 12 cinesi giunti un mese fa in Italia dalle campagne dello Zhejiang sono dei fantasmi. E quando pure urlano frasi in un inglese improbabile, nessuno li sente. Erano arrivati a Prato per riportare in patria le salme dei congiunti, arsi nel sonno dall'incendio che all'alba del primo dicembre s'era scatenato nel capannone in cui lavoravano, una fabbrichetta tessile come tante ce ne sono nella Chinatown pratese: manodopera a basso costo, sicurezza zero. O quasi. In 7 avevano perso la vita in quella che, per loro, era ad un tempo casa e bottega: la «Teresa Moda», gestita da un'imprenditrice anch'ella cinese, datasi alla macchia al crepitar delle prime fiamme. Sdegno, indignazione e commozione avevano ammantato di sé il dramma. «Questa tragedia l'abbiamo tutti sulla coscienza», commentava amaro il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, mentre il ministro per l'integrazione Cecile Kyenge twittava: «Mio pensiero per tragedia Prato. Vicinanza alle vittime». E infatti talmente sono stati vicini alle vittime - 6 ancora stipate nelle celle dell'istituto di medicina legale di Firenze - che si sono scordati i parenti. I quali, spesi i pochi soldi messi insieme prima di partire per il Belpaese e sfrattati dall'appartamento in cui avevano trovato ospitalità pagando la pigione ad un connazionale, si sono rifugiati proprio nei depositi della «Teresa Moda», con un materasso, qualche straccio per vestito e tanta rabbia nei confronti della terra d'origine. «Si sentono abbandonati», dice Antonio Bove, l'avvocato bolognese che li assiste.
«Ce l'hanno col governo cinese perché non ricevono sostegno, neppure un tetto ed un pasto caldo. Presto incontrerò il console e poi l'ambasciatore per tentare di sbloccare l'empasse».
Ieri, a Roma, hanno manifestato davanti all'Ambasciata. L'8 gennaio, con gli stessi striscioni, avevano portato la protesta davanti al Consolato di Firenze. Ma finora promesse tante, soldi niente. Con la Cina che pare giocare allo scaricabarile manco fosse la peggiore Italia. «Al Consolato - ricorda il deputato di Fi Riccardo Mazzoni, pratese doc - li hanno invitati ad attivarsi per ottenere i risarcimenti attraverso le leggi italiane. Nulla più, sebbene l'azienda del rogo fosse gestita da una cinese». Per la dozzina dagli occhi a mandorla, un calcio nei denti: lo guanxi, la sacra rete di solidarietà che tiene un cinese al riparo dalle avversità ovunque si trovi, non esiste più. A tirarli su di morale ci ha provato allora il governatore Rossi, annunciando contributi da pescare nel fondo di solidarietà per le famiglie vittime di incidenti mortali sul lavoro. Ma il rimedio non convince.
«Cosa diremo alle famiglie dei tanti toscani morti in fabbrica o nei cantieri, che di quel fondo non hanno mai visto un centesimo?», chiede Mazzoni, spostando il tiro: «Vanno aiutati, non c'è dubbio, ma nell'ambito di un ragionamento più ampio: a Prato si vive una situazione ai confini della realtà, sotto il profilo occupazionale e dell'ordine pubblico. C'è stata un'operazione scientifica di insediamento che, fino a qualche anno fa, non ha incontrato resistenze. Adesso c'è un distretto produttivo che paga le tasse e sconta la crisi, e c'è chi invece le tasse non le paga e prospera, a volte anche attraverso lo sfruttamento delle maestranze.
Queste cose il nostro governo le sa e col ministro Alfano ha promesso un tavolo specifico».Qualcuno, se può, ne informi anche la Repubblica Popolare di Cina. Smemorata al punto da ignorare persino il destino dei suoi figli.
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