«Era il magistrato più famoso al mondo» ha ripetuto l'altro giorno Claudio Martelli, ex Guardagilli che nominò Giovanni Falcone direttore degli Affari penali nel febbraio 1991. Aveva fatto condannare la Cupola al Maxiprocesso, era di casa presso magistrature estere, aveva individuato i filoni economici come strumento per risalire ai vertici di Cosa nostra . Il più famoso al mondo: un giovane oggi sarebbe autorizzato a immaginarsi un giudice che abbia raccolto un minimo di gloria e riconoscenza, da vivo. C'era qualche eccezione.
Non piaceva, per esempio, ai suoi vicini di casa: alcuni condomini, nello stesso stabile di via Notarbartolo dove ora c'è «l'albero Falcone», avevano scritto al «Giornale di Sicilia» nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. In parte avevano torto, visto che lo stesso Totò Riina aveva scelto quella zona per i suoi incontri mafiosi: è stato il pentito Balduccio Di Maggio in un verbale del 9 gennaio 1993 rimasto inedito, per quanto sappiamo a indicare una villetta «ubicata nel quadrivio tra via Regione Siciliana, via Leonardo Da Vinci e via Notarbartolo» dove il Boss fissava appuntamenti. C'era qualche eccezione, sì. Sembrava ovvio che nel 1988 il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse diventare Falcone: ma un certo «sistema» esisteva anche allora e così il Csm, il 19 gennaio, gli preferì Antonino Meli in quella che l'ex consigliere Pci Carlo Smuraglia definirà «una delle piu brutte pagine della storia del Csm e della vita politica del Paese». A decidere fu praticamente Magistratura democratica. In pratica al giudice più famoso al mondo in tema di mafia non passarono più inchieste sulla mafia. Ecco perché il 13 marzo 1991 accetto di trasferirsi a Roma per dirigere l'ufficio degli Affari penali: «Che ci rimanevo a fare laggiù?», disse all'amica giornalista Liana Milella?». Infatti fu al Ministero che concepì la Superprocura antimafia contro cui si alzò subito un fuoco di sbarramento da parte soprattutto dell'Associazione nazionale magistrati. C'era qualche eccezione, sì. Anche in Parlamento, alla Camera, il Pds (ora Pd) presentò un emendamento ad hoc per escludere Falcone dal vertice della Direzione nazionale antimafia, che «costituisce», scrissero, «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all'indipendenza della Magistratura». Il Bollettino di Magistratura democratica, a pagina 155, nel titolo riportava l'espressione «disegni di ristrutturazione neo-autoritaria».
Il 2 dicembre 1991 l'intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», scrisse il Sole 24 Ore. Tutte eccezioni. Magari eccezioni per un giorno o per qualche mese, come dimostrò la pubblica lettera (una coltellata) che tra i primi firmatari annoverava colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli e persino Paolo Borsellino: la superprocura era «uno strumento inadeguato, pericoloso e controproducente». Seguivano sessanta firme in data 23 ottobre 1991.
Il resto sono eccezioni, come le note accuse di Leoluca Orlando (sindaco di Palermo) che s'inventò che Falcone proteggeva Andreotti e che disse che il giudice nascondeva documenti sui delitti eccellenti. Falcone dovette discolparsi davanti al Csm dopo un esposto sempre di Orlando. Secondo un racconto di Francesco Cossiga, Falcone ne uscì in lacrime: «Venne da me piangendo: «Non si può andare avanti in questa maniera... Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità, è l'anticamera del komeinismo». Manca lo spazio, ora, per ricordare moltissime altre ecczioni.
Cosa nostra, in ogni caso, già allora aveva deciso di saldare il conto: mentre a Roma si discuteva su come impedire a Falcone qualsiasi nomina, il futuro pentito Giovanni Brusca stava già facendo dei sopralluoghi sull'autostrada Palermo-Trapani, vicino a Capaci.Giovanni Falcone era il magistrato più famoso al mondo e anche il più solo.
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