L'ex clochard che ha fondato la trattoria gestita da barboni

Laureato, un master all'Fbi, perse il lavoro e finì per strada. "Dormivo sullo zerbino del sindaco Letizia Moratti: diventai suo consulente. Ma con Pisapia non c'è feeling"

L'ex clochard che ha fondato la trattoria gestita da barboni

Giura che quando figurava ai primi posti nelle classifiche internazionali del mensile Trend discotec e passava le notti come disc jockey al Plastic di Milano, all'epoca frequentato da Elton John, Madonna, Freddie Mercury e Bruce Springsteen, era arrivato a guadagnare un milione e mezzo di lire. Non al mese: l'ora. Difficile immaginare che cosa abbia provato Wainer Molteni a trascorrere le successive 2.700 notti, dall'ottobre 2004 fino al febbraio 2012, all'addiaccio invece che alla consolle, in compagnia di quelli che oggi lui chiama barbafratelli anziché della cantante Grace Jones, che noleggiava apposta un aereo per raggiungere il locale di viale Umbria, del pittore Andy Warhol, degli stilisti Stefano Gabbana ed Elio Fiorucci, dello scultore Maurizio Cattelan e di tutta quella fauna di top model, artisti, yuppie e trasgressivi che popolano i santuari della movida.
Per oltre sette anni della sua vita, Molteni, nato nel 1971, è stato un clochard. Dormiva per strada. È lì che ha conosciuto Renzo, coetaneo e «socio storico» originario di Cesano Maderno, che lui chiama Nocciolina («di notte si metteva a spaccare la frutta secca con un sasso per placare i morsi della fame e mi svegliava»), e gli altri nove compagni di sventura che a Serravalle Pistoiese ha riciclato in imprenditori nella fattoria Clochard alla riscossa, l'unica in Italia gestita da ex barboni, fino allo scorso novembre anche agriturismo, ristorante, pizzeria, bar e locanda con cinque camere. «Ce l'ha affittata una famiglia milanese», spiega Molteni, «talmente indebitata che, pur di incassare i 3.000 euro di canone mensile, ha carpito la mia buona fede tenendomi all'oscuro del fatto che mancava l'abitabilità e che gli impianti elettrico, idrico e fognario non erano a norma». Inevitabile che la promettente attività commerciale degli 11 barbafratelli redenti sia stata interrotta dopo appena cinque mesi da vigili urbani, carabinieri e Asl, giunti nella fattoria col rinforzo di ispettori dell'Inps e del ministero del Lavoro. In attesa che gli concedano di tornare ai fornelli, Molteni ha avviato a Massa e Cozzile, vicino a Montecatini, un'altra azienda gestita da ex homeless, Uso & riuso, dove chiunque può portare le cianfrusaglie che ingombrano cantine e soffitte. «Le prendiamo in conto vendita e tratteniamo il 50 per cento del prezzo se riusciamo a piazzarle. In pochi mesi siamo stati costretti ad ampliare l'esposizione. Ora supera i 650 metri quadrati e il nostro bilancio è già tornato in attivo».
Poiché tuttavia un antico adagio espone chi nasce sfortunato all'alea che gli piova sul culo anche mentre sta seduto, ecco che Molteni si trova a fronteggiare nuove insidie. C'è chi mette in dubbio che sia nato a Marsiglia, che si sia laureato a Milano, che abbia frequentato un corso di perfezionamento alla Normale di Pisa, che sia stato ammesso dal Federal bureau of investigation a un master in criminologia tenutosi nientemeno che nell'accademia dell'Fbi a Quantico e persino che sia il vero autore del libro Io sono nessuno pubblicato da Baldini & Castoldi. «Su Internet scrivono che ho accumulato denunce, procedimenti penali, amministrativi e sanzioni per oltre 55.000 euro e che avrei minacciato di morte e sfruttato molti clochard. Tutte calunnie diffuse da due giornaliste che facevano parte dell'associazione Clochard alla riscossa e che sono state cacciate. Le ho querelate e ho vinto la causa in tribunale a Pistoia. Quanto al libro, Dalai Editore, proprietario del marchio Baldini & Castoldi, a giugno ha presentato domanda di concordato preventivo e finora non mi ha versato neppure un euro di diritti. È la sfiga del barbone».
Questione di sfortuna anche il fatto che dei molti nomi citati dall'ex clochard non si trovi traccia in Internet? Per carità, il Web non è il Vangelo, ma di solito qualche indizio lo offre. Invece zero sul «professor Morandi» con cui Molteni sostiene d'essersi laureato alla Statale; zero sul «professor Gambisi» con cui avrebbe studiato a Pisa; zero sull'esistenza di un dottorato in criminologia presso la Normale; zero sulla famiglia napoletana Brandillo che gli avrebbe dato lavoro in una catena di supermercati poi fallita (non figura un solo Brandillo fra gli abbonati Telecom dell'intera Campania). La sfiga del barbone è tenace e si estende anche all'occasionale intervistatore: nonostante quattro solleciti, ho aspettato invano per più di un mese le copie dei documenti anagrafici, accademici e giudiziari che Molteni aveva promesso di inviarmi.
Ma è vero o no che è nato a Marsiglia?
«Verissimo. Solo che l'atto di nascita fu redatto all'età di 2 anni a Desio».
Stento a seguirla.
«I miei genitori, Andrea e Rosa, erano militanti di Lotta continua, ricercati per ogni genere di reati, escluso l'omicidio: banda armata, rapina, attentati. Nel 1970 ripararono in Francia, dove nacqui. Dai 2 ai 16 anni ho vissuto a Mombello nella casa dei genitori di mia madre, Emilio e Maria Bambina, contadini».
E poi che cos'è accaduto?
«Figlio unico di figli unici, rimasi solo. Mia madre fu uccisa da un tumore nel marzo 1996. Mio padre, un colosso alto 2 metri che in vita sua non aveva mai avuto neppure un raffreddore, morì di crepacuore un anno dopo, nel marzo 1997. Lo stesso accadde al nonno Emilio, che a luglio raggiunse sua moglie deceduta a febbraio. Come se nessuno di loro potesse vivere senza l'altro accanto. Oggi abito con i miei barbafratelli e sono fidanzato con Stefania, assistente in uno studio medico di Milano».
La laurea l'ha conseguita o no?
«Nel 1997, in sociologia, alla Statale, voto 104. Tesi sul mostro di Firenze».
Strano argomento.
«Frutto di fissazione infantile: a 8 anni mi venne regalata l'Enciclopedia del crimine e mi appassionai. Per la tesi mi fu di grande aiuto il compianto procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, che per primo indagò sui delitti a sfondo sessuale compiuti in Toscana».
E chi le ha aperto le porte dell'Fbi?
«La Normale di Pisa. Fui selezionato con altri 23 per un master in criminal profiling di tre anni nella sede di Quantico, Virginia. Il padre del mio compagno di stanza stava per aprire una catena di supermercati discount, chiamata New Florida. Al ritorno in Italia mi propose di occuparmi della selezione del personale. Arrivammo ad avere 57 punti vendita. Nel 2004 l'azienda saltò per bancarotta fraudolenta e io mi ritrovai sulla strada».
Intende a dormire per strada?
«Anche. Per protesta».
Stento di nuovo a seguirla.
«La prima notte, 10 ottobre 2004, andai nel dormitorio pubblico di via Maggianico, un'ex scuola alla Bovisa. Entravi alle 21, ti assegnavano il posto letto. Stanze da 12. Ma spesso dormivo in camerate con altri 47 clochard. Il 15 marzo il Comune di Milano decise che l'emergenza freddo era finita e buttò per strada 450 senzatetto. Peccato che avesse nevicato due giorni prima. Occupammo l'edificio per tre volte e per tre volte ci sgomberarono. Alla fine venne demolito».
Dormire sul marciapiede fu una conseguenza, più che una protesta.
«Toglievano i posti letto ai disperati per dare i contributi all'acquisto del Viagra agli over 70. I vecchi impotenti votano. Ma i barboni no: chi non ha un domicilio non viene chiamato alle urne».
E dunque?
«Scelsi di dormire sullo zerbino del sindaco Letizia Moratti, in galleria De Cristoforis. Sarei andato a sistemarmi davanti al portone dell'assessore alle Politiche sociali, Mariolina Moioli, ma abitava a Bergamo. Un po' scomodo».
La Moratti come reagì?
«La sua scorta privata mi faceva sloggiare all'alba, quindi lei non poteva vedermi. Dopo cinque anni implorai Pasquale, il capo dei gorilla, una brava persona che al risveglio mi offriva il caffè, di farmi parlare col sindaco. Erano già morti per il freddo otto barboni. Il Comune consegnava i sacchi a pelo ad associazioni che non ce li distribuivano. Alla biblioteca Sormani, dove l'accesso a Internet è gratuito, avevo aperto un profilo su Facebook, Clochard alla riscossa, e lanciato un Sos. Subito erano arrivati 1.500 sacchi a pelo dalla ditta Bertoni di Milano. Non sapevo dove metterli. Così Pasquale mi fece avvicinare alla Moratti, che mi strinse la mano e mi convocò a Palazzo Marino, nonostante avessi 26 occupazioni alle spalle. Era il 23 dicembre: mi diede sulla fiducia le chiavi di una scuola. Dopo tre giorni gliele riconsegnai. Da allora abbiamo sempre mantenuto un ottimo rapporto. Ero il suo consulente per le problematiche dei senzatetto. Un feeling venuto meno col successore, Giuliano Pisapia».
Perché non si cercò un altro lavoro?
«Lo feci. Sempre la stessa risposta: “Profilo troppo qualificato”. Ero arrivato a indicare nelle domande di assunzione solo la licenza media, pur di lavorare come lavapiatti. Oggi la situazione è ancora più terribile. Non per nulla i senzatetto a Milano sono diventati 16.000».
Perché non chiese aiuto ai nonni?
«Per un orgoglio congenito ereditato proprio da mio nonno. Vendeva mezzo vitello, non glielo pagavano e lui si faceva staccare la corrente elettrica piuttosto che andare a riscuotere il credito».
Come si finisce per strada?
«Dall'oggi al domani, quando non vuoi gravare sulla famiglia d'origine. L'età media dei clochard s'è abbassata di 20 anni: ex manager, padri separati, laureati che mangiano nelle mense e che al cellulare, quando ricevono una telefonata dalle madri, rispondono: “Scusa, ma sono al ristorante”. Ne ho conosciuti a migliaia. E non uno che fosse diventato barbone per scelta».
Mi parli della vita del clochard.
«Non prevede la libertà. Devi essere più preciso di un impiegato. Chi non è puntuale non mangia, non si veste, non si lava, non dorme. Sopravvivere diventa un lavoro. Già è un'impresa trovare un imballaggio che di notte ti ripari dal freddo. Bisogna appostarsi in attesa che i negozi chiudano, perché i camion dell'Amsa passano pochi minuti dopo a prelevare i cartoni lasciati in strada dai commessi».
Dove mangiava?
«Nella mensa dei Fratelli di San Francesco, che serve 3.000 pasti al giorno».
Dove si lavava?
«Nei bagni pubblici di via Pucci, vicino alla sede Rai di corso Sempione. Ma per una doccia serviva un euro e mezzo».
E lei non aveva soldi.
«Mai chiesto l'elemosina. La tragedia fu quando mi rubarono lo zaino, la mia casa. C'erano dentro prodotti per l'igiene, un cambio di biancheria, un paio di scarpe e tre libri presi a prestito. Mi vide Bedy Moratti, cognata di Letizia, e mi chiese perché fossi sconvolto. Mezz'ora dopo avevo uno zaino nuovo, con dentro il nécessaire, due telefonini e tre libri identici a quelli spariti».
Che cosa teme di più un clochard?
«Il risveglio d'inverno. Mille spilli che si conficcano nel corpo. Non si può spiegare. Non pensi a nient'altro che al freddo. La prima notte io avevo soltanto una coperta. Quando zio Antonio, un barbone di 35 anni che dorme sul gradino della sede dell'Inter, arrivò a portarmi un sacco a pelo, era già troppo tardi. Mi risvegliai con le dita viola. Al Policlinico stavano per amputarmi gli alluci. Quattro ore in ammollo nell'acqua calda».
Perché li chiama barbafratelli?
«Perché fra i barboni ho trovato molta più civiltà che nella società dalla quale provenivo. Ho imparato da loro a dividere una sigaretta in cinque e un panino in sei. Se mi dà del barbone, io non mi offendo, anzi lo considero un complimento».
Come mai a Milano aumentano i clochard e altrove no?
«È la cultura della “Milan col coeur in man” degenerata in assistenzialismo. Ci mangiano in molti, tranne gli homeless. Nell'inverno più rigido degli ultimi 60 anni, i Clochard alla riscossa hanno gestito il piano freddo senza spendere un centesimo, solo avvalendosi dei volontari. Per questo siamo stati estromessi. Eravamo incompatibili col rodato sistema di aiuti a fondo perduto. Esempio: l'Unione europea stanzia 600.000 euro per offrire un bicchiere di tè ai senzatetto. Poi scopri che quel tè arriva gratis dal Banco alimentare».
Ma se oggi lei incontra un barbone per strada gli fa l'elemosina o no?
«No, preferisco parlarci insieme. In questo sono assai diverso dal mio maestro, fratel Ettore Boschini, pace all'anima sua, l'angelo dei diseredati della stazione centrale di Milano. Passai un anno e mezzo agli arresti domiciliari da lui.

Un giorno, siccome doveva presentarsi alla casa generalizia dei camilliani, suor Teresa lo costrinse a indossare un paio di scarpe nuove. Ma fratel Ettore, vedendo un mendicante scalzo fermo a un semaforo nei pressi di Niguarda, scese dall'auto, se le tolse e gliele consegnò».
(666. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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