Insensato il fiume d'indignazione che inonda i giornali per le dimissioni di Mario Monti propiziate dal Pdl. La legislatura ormai era conclusa: settimana più, settimana meno, non cambia nulla. Vorrà dire che le elezioni, anziché il 10 marzo 2013, si svolgeranno in febbraio. Non è una tragedia. Tanto più che le leggi di stabilità e di bilancio passeranno regolarmente. Quindi, dov'è il problema?
Se i mercati faranno le bizze, sarà solo perché è venuto meno il loro garante, l'uomo del quale si fidano, colui che ha salvato il sistema (che ha nelle banche il proprio braccio armato) a scapito del Paese, dei ceti medi e di quelli bassi, impoveriti dalle tasse più salate del mondo e dalla disoccupazione crescente. Ciò detto, è utile ricordare che la grana dello spread è stata sciolta da Mario Draghi, non dal nostro governo.
I tecnici, transeunti per definizione, si sono limitati a usare il randello fiscale. Pensioni a parte, non hanno sfornato una sola riforma sostanziale: quella del lavoro è un pasticcio, nessuna liberalizzazione, nessun provvedimento in favore dell'agognata (e illusoria) ripresa, zero tagli alla spesa pubblica, nonostante le roboanti promesse di spending review. E allora, peggio per peggio, cos'hanno da temere gli italiani dall'uscita dei professori? Forse il risultato elettorale. Se vincesse Pier Luigi Bersani, sarebbe una sciagura.
Se si esclude la breve parentesi di Massimo D'Alema, succeduto a Romano Prodi grazie al famigerato ribaltino sotto l'egida di Oscar Luigi Scalfaro, sarebbe il primo ex comunista a Palazzo Chigi. Già questo fa venire i brividi. Se si aggiunge che ci andrebbe sostenuto dal Sel di Nichi Vendola e dai centrini scentrati di Pier Ferdinando Casini, e che la sua politica sarebbe fortemente condizionata dalla Cgil, di cui conosciamo l'arretratezza culturale, non c'è da scommettere un centesimo sulla sua lunga permanenza alla presidenza del Consiglio. L'esperienza insegna che maggioranze di sinistra del tipo descritto non durano: Prodi ha provato due volte a gestire simili ammucchiate e ha fallito nel giro di un anno e mezzo, due al massimo, in tempi peraltro assai più tranquilli del presente.
A parità di imbarcazioni, non si capisce perché Bersani possa compiere l'impresa di navigare in acque politiche dove Prodi è naufragato. Il nostro non è un augurio di colare a picco, per carità, è solo un mero calcolo di probabilità. Vi immaginate il segretario del Pd, tirato per la giacchetta a sinistra da Vendola e da Susanna Camusso, e a destra da Casini e da Fini, costretto a decidere se introdurre o no la patrimoniale? Oppure se effettuare un prelievo forzoso, come fece Giuliano Amato all'inizio degli anni Novanta, sui conti correnti di tutti i cittadini con due o dieci soldi depositati in banca?
Con quale faccia Luca Cordero di Montezemolo e i suoi amici darebbero il benestare a rapine del genere? E la gente come reagirebbe? Ve lo figurate Bersani che sburocratizza gli apparati statali, che riordina la sanità e la scuola, che riduce ai minimi termini gli sprechi della casta? Un ex comunista che tradisce lo statalismo dopo averlo ingrassato per lustri non è ancora nato. Il nostro Paese ha bisogno di una robusta terapia liberale. È in grado Bersani di predisporla andando contro le aspettative del proprio elettorato? Un conto è vincere le primarie col trucco, un altro è governare con un occhio al bilancio (e al debito pubblico) e l'altro alla piazza già abbastanza in subbuglio.
Date le premesse, perché stupirsi se Silvio Berlusconi, fiutata l'aria, ha optato per un rientro nell'agone politico? D'accordo, il suo partito è uscito malconcio da un periodo travagliato; ha avuto sbandamenti vertiginosi; molti dirigenti hanno perso la trebisonda; l'esperimento Angelino Alfano non ha avuto l'esito sperato; alcuni hanno meditato di trovare riparo altrove; le primarie, prima annunciate e poi negate, hanno creato sconcerto e imbarazzo. Si è avuta l'impressione che il centrodestra fosse spacciato. Ma gli accadimenti degli ultimi giorni hanno restituito al Pdl l'orgoglio necessario a rimettersi in sesto.
È bastato che il Cavaliere, accantonato ogni tentennamento, si convincesse che tutto sommato la partita fosse ancora aperta, altro che giochi già chiusi. Ignoro quale sia stato l'elemento che lo abbia portato a ricredersi sulle potenzialità del Pdl. È un fatto che nel momento stesso in cui egli ha dichiarato l'intenzione di riappalesarsi, gli scenari sono mutati. All'improvviso i suoi accoliti si sono ricompattati, persuasi che l'uomo abbia l'energia e la volontà per tentare la rimonta: fine delle beghe, delle rivalse, della sfiducia.
Conviene battersi perché i progressisti sono meno solidi di quanto sembrasse, anzi, sono vulnerabili, vecchi, stremati: per dare la scossa al Pdl è sufficiente la constatazione che Bersani è stato due volte ministro dell'Industria senza combinare nulla. Se ce la fa lui a stare in sella, anche i berluscones possono rimontare a cavallo. In fondo, i voti del centrodestra sono ancora lì a disposizione, in riserva. Se Berlusconi è pronto ad affrontare la campagna elettorale con lo stesso vigore del 2006, se si impegna a rinnovare il partito, escludendo i pesi morti e gli impresentabili, a stilare un programma concreto (non libri dei sogni), e a dire con quali risorse è realizzabile, ecco, la competizione elettorale è destinata a riservare sorprese.
L'Italia, da quando è unita e ha ottenuto il suffragio universale, ha sempre avuto due anime; e quella rossa non ha mai prevalso se non per effetto di strane alchimie partitiche. Il centrodestra conserva tutti i propri supporter: si tratta di persuaderli che esso vanta di nuovo una leadership, e il loro consenso non tarderà a ritornare nella sede naturale. Qualcuno, nel Pdl, ha mugugnato perché puntava su un altro capo, più fresco; ma un altro capo non c'è e se ci fosse stato sarebbe emerso.
Merita andare sul sicuro. Se Berlusconi si danna l'anima benché apparentemente parta battuto, ha le chances per rompere le uova a chi si accinga a servirci una cattiva frittata.
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