In nome del popolo italiano

diOggi Germano Nicolini ha 93 anni e da ex partigiano, medaglia d'argento al valor militare, continua a prestare la sua testimonianza sugli orrori della guerra e sulla sua drammatica vicenda personale quella che il 13 maggio del 1947 lo vide finire in prigione con l'accusa di omicidio.
Era il 18 giugno del 1946 quando nella parrocchia a San Martino Piccolo, frazione di Correggio, venne trovato ucciso con due colpi d'arma da fuoco Don Umberto Pessina. Sindaco di Correggio, la cittadina del Reggiano che diede i natali al pittore Antonio Allegri (detto il Correggio), era Germano Nicolini un giovane ventottenne iscritto al partito comunista che fu eletto anche grazie ai voti di alcuni consiglieri comunali della Democrazia Cristiana. L'omicidio di Don Pessina destò molto scalpore e fu imputato immediatamente a tre uomini: Germano Nicolini, Antonio Prodi ed Elio Ferretti che furono arrestati il 13 maggio del 1947. Durante la seconda guerra mondiale Nicolini fu fatto prigioniero a Tivoli dai tedeschi ma riuscì in maniera rocambolesca a darsi alla fuga e a partecipare alla guerra di Liberazione. Fu il modo rocambolesco con cui fuggì dalla prigionia tedesca il motivo per cui gli fu dato il soprannome di comandante «Diavolo».
Terminata la guerra, il governatore americano Adam Jannete, nominò il Nicolini Comandante della Piazza di Correggio. Ma per Germano Nicolini quel 13 maggio inizia una nuova e dura battaglia; quella tesa a dimostrare la propria innocenza. Ci fu grande attenzione sul processo per l'omicidio di Don Pessina da parte di tutta la curia e in particolar modo dal vescovo di allora di Reggio Emilia Monsignor Socche. Il processo si svolse a Perugia e nel 1950 Nicolini fu condannato a ventidue anni di reclusione. A nulla valsero le testimonianze che affermavano che nel momento dell'omicidio di Don Pessina il Nicolini stava giocando a bocce con amici in un paese nelle vicinanze. Non solo un alibi circostanziato e confermato da più persone ma anche la testimonianza di due reo confessi, Cesarino Catellani ed Ero Righi, che spontaneamente si consegnarono alla giustizia autoaccusandosi. Sia il Catellani che Righi non furono creduti e furono condannati per autocalunnia. Il grande accusatore, Antenore Valla, durante il processo confessò più volte di essere stato torturato dal Capitano dei Carabinieri Pasquale Vesce, per estorcere le accuse contro il Nicolini. Naturalmente la solerzia nel risolvere il caso dell'omicidio di Don Pessina valse al Comandante Vesce la promozione a Generale.
Ma per Nicolini le porte del carcere si chiusero definitivamente e rimase per 10 anni in carcere. Passarono quaranta anni quando, finalmente, nel 1990 l'onorevole Montanari riuscì a fare riaprire il processo. Infatti le testimonianze dell'epoca individuavano in tre persone gli assassini di Don Pessina mentre i reo confessi, Catellani e Righi, erano soltanto in due. Così a rendere possibile la riapertura del processo ci fu l'autoaccusa di William Gaiti, il cosiddetto terzo uomo, come facente parte assieme agli altri due del commando che fece irruzione nella Canonica di Correggio trucidando Don Pessina.
Si aprì il processo a carico di Gaiti, Righi e Catellani che furono nel '93 condannati per l'omicidio del parroco; mentre per Nicolini, Prodi e Ferretti si dovette attendere l'8 giugno '94 perché fossero assolti «per non aver commesso il fatto». Si concluse che la sentenza contro Nicolini, Prodi e Ferretti era già scritta prima che iniziasse il processo nel '45. Il principale accusatore, il Valla, era il giorno del delitto in Francia, incarcerato a Grenoble, per espatrio clandestino sotto falso nome (tale Sandro Tontolini) e i riscontri quindi di inattendibilità del teste prodotti dalla difesa nel '47 non furono ammessi come prova.

La corte di appello di Perugia il 3 giugno '94 sentenziò «… una pressante quanto legittima domanda di giustizia da parte del clero locale, estrinsecatasi però in iniziative al limite dell'interferenza; interventi di attività non istituzionali e comunque processualmente non competenti- abbia fatto si che la legittima esigenza di individuare e punire del grave e gratuito fatto di sangue si risolvesse, oggettivamente, in una sorta di ricerca del colpevole a tutti i costi dando luogo ad un grave errore giudiziario al quale la Corte ha ritenuto ora di dover porre rimedio assolvendo gli imputati e restituendoli alla loro dignità di innocenti».
@terzigio

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