La crisi ormai morde senza più remore. Oltre al mercato del lavoro, all'occupazione e alle pensioni, adesso prende di mira anche uno dei simboli dei paesi dell'Europa del sud: il caffè. Secondo i dati pubblicati dall'International Coffee Association (ICO), un gruppo intergovernativo specializzato nel mercato del così detto «oro verde», la produzione mondiale di caffè nel periodo 2011/2012 si è fermata a soli «131 milioni di sacchi», con un calo di oltre il 2,5 per cento rispetto ai «134.4 milioni di unità» del periodo 2010/2011. Una flessione dei volumi che a prima vista non pare eccessiva, ma che per essere del tutto compresa deve essere analizzata in termini disaggregati.
Prendiamo il caso dell'Europa. Il vecchio continente importa quasi il 50 per cento della produzione mondiale di caffè. Non a caso dagli inizi dei bistrot parigini nell'ultima metà del Seicento alle esaltate apologie poetiche baudleriane la mistura nera è diventata una tradizione associata prima di tutto con i caffè europei nonostante questi siano lontanissimi dalle piantagioni ivoriane, brasiliane o etiopi dove invece la pianta è prodotta. Ma per il sud Europa oltre al danno c'è la beffa perché se per l'Italia le importazioni di caffè sono diminuite nell'ultimo anno del 2,9 per cento e in Spagna del 6,6 percento, nella fredda e austera Germania sono invece aumentate dello 0,4 percento. Che i tedeschi abbiamo scoperto il caffè in piena crisi del debito sovrano e che gelosi abbiano deciso di scalzare paesi periferici della bevanda simbolo oltre che dall'accesso al credito? Forse. Le tradizioni però - sopratutto quelle buone - sono difficili da sradicare e c'è chi, ancora la maggior parte, non vuole assolutamente rinunciare alla quotidiana pausa caffè, a quella piccola passeggiata che dall'ufficio o dal portone di casa porta al bar più vicino, alla faccia del barista che saluta con intima cordialità, all'ordinazione del «solito» e a quell'aroma di caffè appena fatto che non smette mai di stupire. Tutto questo però sta lentamente cambiando perché i baristi morsi dalla crisi fanno fronte al minor consumo di espresso dei loro clienti con una mistura che mischia qualità diverse di chicchi macinati. Sono infatti due i principali tipi di caffè: l'Arabica e la Robusta. Il primo è più costoso perché generalmente considerato di qualità superiore data la maggior concentrazione di oli naturali, il gusto delicato, e la minor presenza di caffeina. Il secondo è, come evocato dal nome stesso, più grezzo, meno costoso e dal sapore più acre. Non a caso nell'ultimo anno a seguito della caduta della domanda i prezzi dell'Arabica sono scesi del 30 per cento mentre quelli della Robusta sono saliti del 18. Semplificando, secondo il bon ton enogastronomico, maggiore è la concentrazione di Arabica nella mistura (meglio se 100 per cento) più questa è dolce e gradevole al palato. Non che la qualità Robusta sia scadente, ma essendo il suo chicco più duro quando è macinato deve essere ridotto a una polverina più fine che spesso, a discapito del consumatore, arriva direttamente nella tazza di caffè avvicinando il sapore dell'espresso a quello del caffè turco. E se anche prima della crisi le misture già esistevano, l'Arabica rimaneva sempre intorno al 90 per cento del totale. Oggi invece la percentuale della Robusta supera spesso il 15 per cento. Nella famiglia delle bevande a base di caffeina esiste anche un terzo sostituto: il tè. Non è però facile immaginare di usare quei dieci minuti di pausa al bar soffiando senza sosta sulla tazzina per raffreddarla e poi buttare giù il suo contenuto in un sol colpo con il rischio di bruciarsi il palato. Forse piace agli inglesi, ma in Italia è una moda che non ha attecchito. E l'aroma? Dove andrebbe quella parte integrante e fondamentale di ogni tazzina di caffè? Il tè con tutte le sue qualità e possibilità non può competere con il ritmo veloce e il deciso odore dell'espresso.
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