Passera, Clini e il patto d'acciaio con Riva

Ecco i rapporti dei due Corrado col gruppo. Intanto traballa la prova regina della corruzione

Passera, Clini e il patto d'acciaio con Riva

Nella corrida politico-giudiziaria dell'Ilva di Taranto salta fuori il duplice ruolo di due «Corradi», i ministri Passera e Clini, entrambi alle prese con il Gruppo siderurgico sia prima che durante il loro incarico governativo. Anche se ieri sera, da Santoro, il titolare dell'ambiente ha ribadito che, da direttore generale del ministero, non si è mai occupato delle vicende dell'Ilva, e che la stessa procura di Taranto ha negato che lui sia citato nelle intercettazioni. Intanto, dall'inchiesta tarantina rischia di crollare la prova regina, quella degli «accordi corruttivi». Nella storia del Gruppo Riva alta finanza e politica s'intrecciano con una certa disinvoltura. Prendiamo Corrado Passera. Il superministro dello Sviluppo economico, oggi chiamato a gestire la bomba sociale della chiusura dell'impianto, ai tempi di banca Intesa è stato un generoso finanziatore del gruppo Riva. Ha assicurato linee di credito e prestiti agli imprenditori dell'acciaio incassando ricavi per l'istituto di credito e creando un formidabile canale di interlocuzione con la dinastia industriale. Uno degli ultimi prestiti? Un mutuo da 80 milioni di euro per la costruzione in Cina di due grandi navi utilizzate per il trasporto del materiale ferroso. E quando nel 2008 Intesa per conto di Berlusconi cerca adesioni per la cordata di volenterosi «salva-Alitalia», il patriarca del gruppo, Emilio Riva (ai domiciliari da luglio), stacca un assegno di 120 milioni per il 10,8 per cento della neonata Cai, diventando il secondo azionista della società. «Sappiamo bene che non ci guadagneremo», ammette in un'intervista al Sole24Ore. Ma allora perché i Riva hanno investito in Alitalia, se da sempre il core business del gruppo è l'acciaio? Per fare l'acciaio è necessario risolvere il problema di Taranto. E nel 2011, a Taranto, l'Ilva è alle prese con le garanzie fideiussorie delle «discariche a servizio» del grande impianto, un punto decisivo per rispettare i requisiti previsti dall'Aia, l'Autorizzazione integrata ambientale, dello stesso anno. Fino ad allora, la garanzia contro gli eventuali danni ambientali delle discariche era di 7-800mila euro, coperta da banca Carige. Quando a fine 2011 la provincia di Taranto vuol ridiscutere le garanzie, e alza la posta a circa 300 milioni di euro, si apre una trattativa che a giugno scorso ha visto l'Ilva offrire (invano, al momento) una garanzia fideiussoria di un centinaio di milioni di euro, ottenuta non più da Carige, ma da banca Intesa, che da pochi mesi Passera aveva lasciato per il ministero. Tornando all'Aia, passiamo da Passera a Clini. L'attuale titolare dell'Ambiente fino al 2011 era direttore generale del dicastero che, nel 2008, in pieno affaire Alitalia, cominciava l'istruttoria per l'Aia dell'Ilva, il cui via libera arriverà solo il 4 agosto 2011, ben oltre i 300 giorni previsti per legge. Un iter tortuoso che crea problemi all'azienda e che oggi la Procura di Taranto rilegge alla luce di nuovi spunti investigativi. Nell'ultima ordinanza, il gip Todisco riporta un'intercettazione del vicepresidente del gruppo Fabio Riva con uno dei legali dell'Ilva, Francesco Perli, che racconta di essersi lamentato delle lungaggini con Luigi Pelaggi, membro della commissione istruttoria della vecchia Aia: «Cosa dobbiamo fare di più – sostiene di aver detto Perli - ve l'abbiam scritta noi! Vi tocca soltanto leggere le carte, metterle in fila e gestire un po' il rapporto con gli enti locali». Davvero l'Ilva ha scritto l'Aia per conto del ministero? Fatto sta che il documento arriva solo dopo il rinnovo della commissione competente, sostituita in blocco dall'allora ministro Stefania Prestigiacomo con uomini di sua fiducia. Poi Clini diventa ministro e, recependo le direttive Ue, riapre l'istruttoria dell'Aia che viene definitivamente consegnata all'Ilva solo nell'ottobre 2012, quando il tornado – quello giudiziario – era già arrivato.

Ma proprio l'inchiesta rischia di subire una brutale battuta d'arresto. Nel corso dell'interrogatorio Girolamo Archinà avrebbe massacrato l'impianto accusatorio. L'ex responsabile relazioni esterne dell'Ilva arrestato lunedì, per la procura il 26 marzo 2010, in autogrill, avrebbe consegnato una mazzetta da 10mila euro a Lorenzo Liberti, ex rettore del politecnico di Taranto e perito della procura, per «addomesticare» proprio la perizia sull'Ilva. Ma per Archinà quei 10mila euro di cui parla, intercettato, con il cassiere dell'Ilva, erano destinati non al perito, bensì al vescovo, che doveva incontrare lo stesso giorno. Quest'ultimo e il suo segretario sul punto avevano dato versioni diverse e confuse, sostenendo di aver ricevuto dall'Ilva solo donazioni saltuarie di 2-3mila euro. Archinà avrebbe provato che l'azienda, dal 2006 al 2011, avrebbe invece «donato» al vescovo 5mila euro ogni Natale, e 10mila euro ogni Pasqua. E per una sponsorizzazione, addirittura 50mila euro.

Quel 26 marzo, a Pasqua mancava una settimana, e alcune conversazioni intercettate dell'uomo con vescovo e segretario proverebbero che proprio quel giorno stava tentando di prendere appuntamento col prelato. Sui documenti che proverebbero la tesi difensiva - smontando l'unico caso di corruzione contestato, e indebolendo fatalmente l'intera indagine - sono in corso in queste ore i riscontri della Gdf.

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