Quando un politico parla di storia è inevitabile che ne faccia un uso appunto politico. Lo storico segue un criterio di verità, il politico uno di opportunità. Per il primo vale la rigorosità del metodo, per il secondo l'efficacia dell'azione, in termini soprattutto di consenso raccolto. Che senso attribuire perciò all'affermazione con cui Berlusconi ha voluto testimoniare ieri la sua partecipazione alla «Giornata della Memoria»? Le leggi razziali sono state certo sul piano morale «la peggior colpa» di Mussolini, ma perché aggiungere che il duce «per tanti altri versi aveva fatto bene»?
A parte l'infelicità del momento scelto (una giornata che è della memoria e che doverosamente dovrebbe essere anche della presa di coscienza di una «colpa» che, in quanto italiani, pesa su tutti noi), è chiaro l'intento politico del leader del centrodestra. Nel rimarcare che non tutta negativa fu l'opera del fascismo, si è riferito evidentemente alle opere e istituzioni di cui si rese promotore vuoi per ammodernare la dotazione infrastrutturale del nostro Paese vuoi per creare un abbozzo di welfare in una società che ne era ancora completamente sprovvista: dal piano di bonifiche che interessarono molte plaghe del Centro-Sud agli interventi urbanistici volti a risanare quartieri malsani di tanti centri urbani, all'edificazione ex novo di nuove città in stile moderno per finire con le istituzioni create nel campo del dopolavoro e, più in generale, dell'assistenza, in particolare a favore della maternità e dell'infanzia. Un'intensa attività che aveva per il duce un preciso scopo politico: integrare le masse, fino allora escluse dallo Stato, al regime. Appunto il regime, ossia la dittatura che per un democratico fa la differenza nel giudicare l'operato di un politico.
Ma siamo in campagna elettorale e al Cavaliere interessa intercettare un orientamento che sa condiviso da una larga parte dell'opinione pubblica moderata, quanto meno scettica, se non apertamente contraria alla koinè ufficiale dell'antifascismo che individua nella Resistenza una netta rottura di continuità nella storia d'Italia. Un'opinione pubblica magari non apertamente nostalgica, ma non per questo disposta a far propria la «memoria rossa», ossia la sua declinazione marcatamente progressista offerta dall'antifascismo militante, memoria questa considerata un attributo distintivo della sinistra. L'uscita di ieri fa il paio con quella, di qualche anno fa (siamo nel 2003), quando Berlusconi cercò di sminuire l'opera repressiva svolta dal duce nei confronti degli antifascisti affermando che «mandava la gente a fare la vacanza al confino» in qualche pittoresca isola del Mediterraneo.
Ha voluto riconfermare, anche a costo (ma forse proprio con l'intento) di suscitare un vespaio di critiche, una versione benevola e comprensiva del passato regime che funziona da reagente e da collante di quell'opinione pubblica avversa alla sinistra e, nella fattispecie, alla sua proposta di elevazione della Resistenza ad atto di rifondazione della politica nazionale, premessa e promessa di un inveramento della democrazia in una qualche versione nazionale dell'utopia socialista. La guerra della memoria come continuazione della guerra politica con altri mezzi.
*Docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano
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