Punito per l'orgoglio, giù il cappello

Per la prima volta i giudici violano la sacralità di un giornale e un diritto fondamentale della democrazia

Punito per l'orgoglio, giù il cappello

Basta leggere gli interventi su Twitter per verificare che pochi hanno capito la ratio del comportamento di Alessandro Sallusti. Perché è stato condannato come un delinquente comune? Perché non ha fatto nulla per evitare 14 mesi di reclusione? Perché si è impegnato a rifiutare gli arresti domiciliari? La spiegazione c'è e non può prescindere dalla personalità e dal temperamento del direttore.

Parecchi, in questi due mesi di attesa nervosa degli eventi, mi hanno domandato: ma dove vuole arrivare e cosa vuole ottenere Sallusti? Anzitutto, lui è un taciturno, introverso, testone, orgoglioso: di quelli che si spezzano ma non si piegano. Se ha degli affetti, e ne ha, li nasconde con cura. Espansività, zero. Cordialità, zerovirgola. Ai tempi in cui era direttore responsabile di Libero, e io mi occupavo della linea politico-editoriale, ci parlavamo sì e no mezz'ora al dì. Ci intendevamo al volo: uno sguardo era sufficiente.
Quando Renato Farina ebbe una grana per aver collaborato (a fin di bene, suppongo) con i servizi segreti e, di conseguenza, dovette dimettersi dall'Ordine (che, nonostante ciò, lo radiò, come se fosse possibile cacciare uno che non c'è), fui io, dopo essermi consultato con l'allora presidente dei giornalisti lombardi, a chiedere ad Alessandro di fargli scrivere degli articoli; non troppi, secondo le raccomandazioni di Franco Abruzzo, cioè il suddetto presidente. Lo stesso Farina si scelse uno pseudonimo. Perché questa mia scelta? Betulla è bravissimo e scrive rapidamente. Sallusti non era d'accordo, ma cedette alle mie insistenze. L'errore fu quello di far vergare a Farina un pezzo sull'aborto, pur essendo tutti noi consapevoli che è religiosamente contrario all'interruzione volontaria della gravidanza. Egli infatti - anche se fece una premessa: «esagero» (come dire, occhio che sto per scrivere un paradosso) - usò parole di fuoco. Ora, è convinzione generale che Sallusti sbagliò a non pubblicare, giorni più tardi, la smentita del giudice che Renato aveva offeso. Convinzione erronea, perché fondata su un falso: a Libero non giunse mai alcuna smentita in proposito. Si dà il caso che il magistrato in questione avesse spedito la rettifica all'Ansa, non a Libero. Peccato che noi non fossimo abbonati all'agenzia di stampa. Da qui in avanti, una serie di equivoci e contrattempi.

Si svolge il processo di primo grado. E Sallusti si becca la solita multa, 5.000 euro. Questa è la prassi, e i giornalisti la conoscono perfettamente, tant'è che la totalità di essi in tribunale se la cava così, grazie a un'applicazione morbida della legge (che pure prevede il carcere). Nel processo di secondo grado, la pena si trasforma da pecuniaria in 14 mesi di reclusione. Il dibattimento si svolse a nostra insaputa e in assenza dell'avvocato difensore, nella circostanza sparito. Motivo per cui nessuno comunicò la sentenza a Sallusti, giacché il suo domicilio legale era presso l'avvocato «latitante».

Quando al direttore comunicano che di lì a una settimana il processo sarebbe stato celebrato in Cassazione, egli cade dalle nuvole. A questo punto Alessandro aveva una carta da giocare per chiudere l'incidente senza danni: far sì che il magistrato torinese (il querelante) ritirasse la querela. Il quale magistrato era ben disposto. Ma, al momento di concludere la trattativa, Sallusti si tira indietro: non ci sto, affronto il giudizio.

Incazzato, gli domando: a che scopo? E lui: dobbiamo costringere il Parlamento a modificare questa legge assurda, e dimostrare che coloro i quali la interpretano lo fanno non con senso di giustizia, ma, talvolta, con spirito acrimonioso e per colpire qualcuno che magari li ha criticati aspramente. Era persuaso, il direttore, che la politica fosse entrata in tribunale facendo fuggire la giustizia. Personalmente la pensavo e la penso in modo diverso, e gli dicevo: stai calmo, rinuncia ai sani principi, cerca di salvaguardare il presente e il futuro tuoi. Consigli inutili. Sallusti, a differenza di me, è coraggioso ai limiti della temerarietà. Fino a venerdì scorso scommetteva che la sua idea avrebbe vinto. L'ho scongiurato cento volte di non insistere, invano.

Prima si è fidato della Cassazione, poi si è fidato del governo («farà un decreto per cancellare la galera»), poi si è fidato del Senato che per due mesi lo ha preso in giro promettendo una nuova legge (affossata). Non c'è stata anima che lo abbia aiutato sul serio, anzi. Molta gente - i politici e i gazzettieri - gli ha remato contro, lo ha sfottuto, ha negligentemente trascurato di valutare i fatti nell'intento di farlo apparire come un matto, un velleitario, un presuntuoso, un manganellatore su commissione al quale, in fondo, un po' di prigione avrebbe giovato.

L'accanimento su di lui ha toccato il diapason allorché il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha scritto: arresti domiciliari. Dove? Nella casa in cui Sallusti convive con Daniela Santanchè. Vari scribi si sono scatenati negli sfottò: ma guarda questo, invece che a San Vittore lo «ricoverano» in una reggia con piscina, e via col cattivo gusto e la crudeltà. Il direttore è uscito dai gangheri. Con ragione: come si fa a dileggiare un collega in procinto di perdere, in qualche maniera, la libertà per una diffamazione (senza dolo, cioè in buona fede) commessa sul lavoro? Eppure non mancano gli allocchi che definiscono quella dei giornalisti una corporazione, una casta addirittura. Ma se ci scanniamo l'un l'altro e, peggio, malmeniamo chi è in disgrazia! Sallusti ha dissimulato la sofferenza provocata dalla prosa satireggiante dei cronisti che si dedicavano a lui, già distrutto da un verdetto, quello della Cassazione, che in pratica lo ha dipinto quale delinquente abituale.

Forse Alessandro si aspettava solidarietà, incoraggiamento nel continuare la sua battaglia affinché si eliminasse il carcere per la nostra casta da strapazzo. Sicuramente non si aspettava le beffe dei colleghi, capaci perfino di insinuare che fosse un privilegiato perché avrebbe scontato la pena in una dimora di lusso. Ferito dalle canzonature, la sua opposizione ai domiciliari è diventata ancora più netta, intransigente, maniacale. Non che gli piacesse essere sbattuto in cella, ma lo preferiva al sospetto di passare per un cittadino favorito dai giudici, ai quali, viceversa, attribuiva ogni proprio guaio.

Ecco perché ieri è accaduto quanto raccontiamo dettagliatamente nelle cronache e in altri commenti. Arriva la Digos al Giornale, dove Alessandro aveva trascorso insonne la notte, gli occhi fissi al soffitto, e se lo portano via, strappato alla sua redazione. Viene accompagnato nel decantato alloggio. È qui ha avuto un moto di ribellione: voglio che mi conduciate a San Vittore! Si alza e accenna a incamminarsi verso l'uscita. Lo bloccano. A un centimetro dalla soglia o un centimetro oltre? Non ero sul posto, non mi posso sbilanciare.

Per quel che vale, ho una certezza: non meditava di evadere, figuriamoci. Sarebbe fuggito all'estero durante i due mesi di «quarantena». Voleva la galera. E uno che vuole la galera come fa a evadere? È solo un uomo tutto d'un pezzo che desiderava onorare la sconfitta con un atteggiamento risoluto.

Davanti a te, Alessandro, io che ti ho pregato di non fare il pirla perché ti avrebbero castigato, mi tolgo il cappello. Ti processeranno anche per evasione? Tutti noi del Giornale speriamo in un'assoluzione: uno non evade tra due poliziotti. Saremo sempre dalla tua parte.

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