Comportarsi male dà soddisfazione. È un piacere: non è che semplicemente non ci si senta in colpa come si dovrebbe, è proprio una goduria. Studiata dagli scienziati, analizzata dagli psicologi, la tendenza all'inganno e alla truffa è risultata il contrario di quello che l'etica imporrebbe: un atto che ci elettrizza, che ci fa sentire non dei meschini, dei furbetti, dei miseri arraffoni del destino e delle possibilità mancate, bensì dei cervelloni, più intelligenti degli altri. E quindi, in qualche modo, tanto compiacimento ci induce perfino a ripetere il misfatto: del resto, se con qualche trucchetto l'ho sfangata, e poi mi sento pure meglio, perché non replicare?
Al New York Times erano un po' stupiti, di questa ricerca pubblicata sul Journal of Personality and Social psychology e firmata da studiosi delle università di Washington, Pennsylvania, Harvard e London Business School. Per due motivi: primo, perché tutte le ricerche precedenti avevano sempre indicato che i comportamenti disdicevoli sono seguiti da senso di colpa e malessere; secondo, perché che il non-etico paghi, e sia pure certificato, non rientra nel canone americano, specialmente di condotta pubblica. In Italia, il paese dei furbi, l'attestazione ufficiale del piacere di fregare gli altri (entità spesso anonima, almeno per comodità) è come sfondare una porta aperta: mancava giusto l'argomentazione scientifica, per spiegare quella tentazione irresistibile di sbirciare il compito in classe del compagno, di copiare la risposta all'esame (da quelli di base fino a quelli di Stato o di dottorato o dei superconcorsi pubblici), di ritoccare i rimborsi o le dichiarazioni dei redditi, di migliorare il proprio curriculum di guidatori per l'assicurazione, di ottenere sconti anche quando non se ne avrebbe diritto, di scaricare musica, film e serie tv gratis mentre gli altri pagano l'abbonamento o il download, di viaggiare senza biglietto, di saltare la coda alla posta o in autostrada, di piratare il software del computer, di approfittare dei clienti poco svegli o poco abili con l'italiano al bar e al ristorante, di passare per il figlio di un principe, quando sei figlio di nessuno. Ora, a questo punto si può anche evitare la solita scusa: è la fantasia, è la creatività. No, ora si può dire, e giustificarsi col potere lavacoscienza del rigore accademico: è la natura, che ci ha creati lussuriosi di ingannare. È l'istinto, che ci rende così truffaldini: perché il furbetto si crede furbo, si sente addosso un senso di superiorità che lo fa credere superiore davvero, insomma si illude della propria intelligenza (la più pericolosa, banale e diabolica delle illusioni, la ricaduta eterna nell'autoinganno da cui solo l'ironia potrebbe salvarci ma - ironicamente - è proprio la prima ad abbandonarci, quando serve).
Dicono gli studiosi che il senso di soddisfazione sia legato alla convinzione di non fare male a nessuno: un inganno senza danno, o almeno apparentemente. Per esempio, nel caso della pirateria informatica o delle «sottrazioni» nelle dichiarazioni dei redditi, i conti (globalmente) alla fine non tornano: secondo il New York Times, alcune stime parlano di sessantatré miliardi di dollari persi ogni anno dalle aziende di software.
Far riflettere sui costi reali dell'inganno potrebbe essere un freno per i furbetti; ma anche, suggeriscono i ricercatori, ridimensionare l'impresa: togliere fascino e valore (cerebralmente parlando) alla truffa. Ingannare l'ingannatore, con qualche trucchetto, insomma.blog.ilgiornale.it/barbieri
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