Il Cavaliere, i boss, la trattativa con Cosa nostra. Una ossessione. Più indagavano sulla mediazione con la mafia ai tempi di Berlusconi e più l’evidenza dei fatti, giorno dopo giorno, li costringeva a fare i conti coi silenzi, le omissioni o le bugie di personaggi di centrosinistra. Più dicevano che c’era la vecchia mafia nella cassaforte dell’uomo di Arcore, e più erano costretti a rimangiarsi le conclusioni smontate da consulenze contabili. Più sfornavano pentiti anti Cav e più si scontravano con l’inesistenza dei riscontri e i disastrosi confronti in aula (vedi il processo Dell’Utri con Spatuzza).
A un certo punto, disperati, si sono affidati all’oracolo Massimo Ciancimino, figlio del mafioso don Vito, che dopo aver tenuto fuori Silvio dai suoi ragionamenti cambiò versione in un crescendo di taroccamenti e copia e incolla giudiziari in qualche modo collegati all’esistenza – si fa per dire - di pupari e agenti segreti dai volti sfregiati e dai nomi vari, Carlo o Franco. Anche qui è finita come doveva finire. Male. Il supertestimone in cella per calunnia all’ex capo della polizia De Gennaro e la sua attendibilità fatta a pezzi da altri pm (Caltanissetta) in disaccordo totale coi colleghi di Palermo che consideravano Massimuccio nostro «un’icona antimafia». Senza ripercorrere le «bufale» seriali del ragazzo che sotto intercettazione giurava di essere in grado di sapere tutto sulle inchieste avendo accesso alla banca dati della procura di Palermo, va detto che si è arrivati persino a perquisire il giornalista-senatore Lino Jannuzzi pur di dare un senso a quell’unica linea (spezzata) di continuità che collega più precedenti «trattative», tutte incompatibili con la discesa in campo del Cavaliere nel 1994.
Una prima mediazione sarebbe avvenuta all’indomani della morte di Lima (marzo ’92), la seconda a cavallo tra le stragi di Falcone e Borsellino con improbabile protagonista Mori e i suoi carabinieri del Ros (maggio ’92), la terza con i governi Amato e Ciampi che ammorbidirono il 41 bis (nel 1993), la quarta è di fine novembre ’93 stando a quel che rivela il pentito Spatuzza che dal boss Giuseppe Graviano disse d’aver appreso che il Paese era stato consegnato nelle mani di Cosa nostra da Dell’Utri e Berlusconi (rivelazioni non confermate da Graviano e nel suo complesso definite dalla corte di appello del processo Dell’Utri, «inconsistenti e frutto di inammissibili congetture»). A ciò aggiungeteci la quinta trattativa, nuova di qualche settimana, avviata nel 2003 per l’arresto, o meglio una resa condizionata, del capomafia Provenzano.
Nel festival della trattativa perenne ce l’hanno messa tutta per retrodatare la nascita di Forza Italia agli inizi del ’93 così da farla combaciare con le prima bombe di maggio a Roma e Firenze, e le seconde di luglio a Milano e Roma. Prove? Pochine. Qualche pentito (Brusca che cerca di avvicinare Mangano a settembre ’93, molto dopo le stragi, quando scopre dall’Espresso che lo stalliere lavora ad Arcore) e qualche libro di politica contraddetti da testimoni come l’ex presidente Cossiga che parla di Forza Italia nata i primi mesi del’94. Eppoi c’è un interrogatorio di un ex consigliere politico di Berlusconi, tale Paolo Cartotto (riesumato in queste ore per dimostrare l’esistenza della trattativa con la pubblicazione di un’intercettazione del 2011 nella quale si metteva d’accordo per un appuntamento con Berlusconi a cavallo del faccia a faccia coi pm di Palermo) che fa cenno a una «intenzione» di Dell’Utri di scendere in campo «maturata» a maggio-giugno ’92, un mese prima della strage di Capaci.
L’ipotesi fa a cazzotti con la storia e con la sentenza nissena che ha archiviato Berlusconi e Dell’Utri quali mandanti esterni delle stragi. Non regge nemmeno con la successiva sentenza di Firenze dell’ottobre 2011 sulle stragi del ’93 (quando governava il centrosinistra) che ha spedito all’ergastolo il boss di Brancaccio, Francesco Tagliavia, laddove si scrive che la trattativa fra Stato e Mafia «certamente vi fu» come dimostrano i provvedimenti morbidi sul 41 bis, ma Forza Italia non ebbe alcun ruolo come mandante o ispiratrice delle stragi né Dell’Utri fu il referente di Cosa nostra presso Berlusconi. E che dire del processo (da rifare) al senatore siciliano il cui presunto concorso esterno alla mafia, per i giudici, scade nel ’92, a due anni dalla costituzione di Fi, a uno dalle stragi del ’93.
Nonostante sia chiaro a ciechi e sordi che l’allentamento del 41 bis è avvenuto col centrosinistra, nella «chiusura inchiesta» palermitana sulla trattativa troviamo ancora riferimenti a Silvio per il tramite di Dell’Utri quale «interlocutore» dei mafiosi dopo l’omicidio di Lima (per conto di chi non si capisce) che agevolò la trattativa fino a Berlusconi del ’94. Incredibile. Su questo patto con la mafia il centrosinistra è inchiodato dai fatti. L’ex ministro Mancino (indagato) finisce prima nei guai per colpa dell’ex collega Martelli (ondivago e tardivo sulle sue dichiarazioni sul Ros, accusato dal direttore delle carceri Nicolò Amato di aver detto no a 5mila provvedimenti di 41 bis per i boss) e quindi viene beccato mentre chiede a Napolitano di intervenire sui pm di Palermo.
Per tenere in vita il centrodestra restano, si fa per dire, i collaboranti Brusca, Spatuzza e Ciancimino. Ma i fatti, riscontrati, raccontano questa verità: Cosa nostra ottiene l’ammorbidimento del carcere duro nel 1993, con Oscar Luigi Scalfaro già salito al Colle sull’onda degli attentati a Falcone e Borsellino. Al governo c’è Carlo Azeglio Ciampi, il Guardasigilli è Giovanni Conso (indagato), ed è lui che firma la revoca del carcere duro a oltre 400 mafiosi dopo la cacciata dell’ex capo del Dap Amato ad opera di Scalfaro perché notoriamente contrario a rivedere le sue politiche carcerarie denunciate in una lettera allo stesso capo dello Stato inviata da un gruppo di mafiosi («signor presidente, se chi sta in cella muore, è colpa sua»). Scalfaro, interrogato, ha detto di non aver mai saputo nulla della sostituzione di Amato. Falso, secondo due cappellani delle carceri che hanno ammesso il ruolo di regista di Oscar nel defenestramento di Amato e nella nomina di un successore meno talebano.
E Conso? Ha ritrovato la memoria l’anno scorso, con ciò smentendo quanto dichiarato nel 2002 ai pm di Firenze («sono stato sempre contrario al 41 bis») e quanto scritto nel rapporto conclusivo del governo Ciampi («il 41 bis è rimasto inalterato nella sua struttura e funzione»). Nel 2011 in commissione antimafia ha confessato le revoche del carcere duro «per frenare la minaccia delle stragi» aggiungendo che fece tutto da solo. Non disse niente a Ciampi (che mai, nemmeno in futuro, fiatò sulle quelle revoche). Disse qualcosa a Mancino, che però lo smentisce (a sentire Brusca l’ex ministro dell’Interno usò la mafia e poi la tradì da referente di Riina). Non una parola sulle due lettere ricevute dal Ros di Mori nelle quali si chiedeva a tutti i costi il mantenimento del 41 bis per i mafiosi. Ciampi ha spiegato che le stragi del ’93 erano contro di lui e dopo la decisione in «solitaria» di Conso, governò tranquillo fino a scadenza mandato nel maggio ‘94. Quando a sorpresa sbucò quell’outsider Silvio Berlusconi che rovinò i programmi del centrosinistra, sicuro di vincere sulla scia di Tangentopoli e delle inchieste su Andreotti.
Col senno di poi, con le evidenze dei fatti concreti, occorre chiedersi: cui prodest? A chi giovarono le bombe del ’92? Perché non ne esplosero più dopo le revoche del governo Ciampi? Un indizio potrebbe ritrovarsi in ciò che in tempi non sospetti disse candidamente il pentito Giovanni Brusca (cui vennero concessi i benefici di legge solo dopo aver tirato in ballo i carabinieri del Ros).
Il pentito, già al centro di vivaci polemiche per aver viaggiato sullo stesso aereo dell’ex presidente della commissione antimafia Violante (un altro che sulla trattativa non ha fatto una gran bella figura) al processo Dell’Utri, parlando di stragi, se ne è uscito così: «La sinistra sapeva». Sapeva della trattativa e sapeva pure delle bombe?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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