Il re della spesa se ne va: "Mi licenzio dall'azienda sarò più libero di servirla"

Il patron di Esselunga, Bernardo Caprotti, lascia come un comune dipendente: "Ora potrò dedicarmi a ciò che mi piace: cantieri e negozi"

Il re della spesa se ne va: "Mi licenzio dall'azienda sarò più libero di servirla"

Dal 23 dicembre il Dottore varcherà più raramente la vetrata del palazzo Esselunga a Limito di Pioltello. Sul taschino della giacca non appenderà più il cartellino con nome e cognome che portano tutti i dipendenti, dal mulettista al presidente. A 88 anni Bernardo Caprotti, l'uomo che a metà degli Anni 50 ha aiutato i Rockefeller ad aprire il primo supermarket italiano subentrandovi un decennio dopo, abbandona «deleghe, poteri, compensi: ho deciso di terminare la mia attività come lavoratore dipendente». Ma continuerà a dedicarsi alla sua creatura, una delle aziende italiane di maggior successo: «A Dio piacendo ci sarò e forse sarò anche più libero di fare quello che mi era sempre piaciuto: di andare per negozi e cantieri. Di vedere e parlare con la nostra gente». Cosa che ha sempre fatto in 62 anni di lavoro nei supermercati. L'auto-pensionamento è annunciato in una lettera scritta il 22 novembre e diffusa ai dipendenti lunedì 25, scritta nello stile lucido, scabro e tagliente che ben conoscono le centinaia di migliaia di lettori del suo libro Falce e carrello; uno stile che è lo specchio della persona. Caprotti non si dedicherà più 24 ore al giorno, 365 giorni l'anno, a Esselunga. Il motivo citato nella lettera sono le conseguenze di un incidente occorsogli a fine aprile che l'ha tenuto a lungo lontano dall'ufficio provocandogli «lunghe meditazioni e troppe stanchezze». In questi mesi il Dottore ha sistemato il cruccio che più l'ha preoccupato negli ultimi anni, un travaglio comune a tanti campioni dell'imprenditoria, ciò che l'aveva indotto a riprendersi in mano l'azienda nei primi Anni 2000: la successione. L'imprenditore ha raccontato queste vicende in Falce e carrello. Aveva scommesso sul primogenito Giuseppe, il quale però impose all'azienda una piega non condivisa dal padre. Caprotti sr liquidò Caprotti jr assieme alla sua squadra di manager, allontanati da Limito a bordo di limousine noleggiate per l'occasione. Si diffusero voci che Esselunga sarebbe stata ceduta a un gruppo straniero della grande distribuzione. Caprotti ignorò il mormorio finché un fronte variegato non imbastì una campagna per cui l'azienda doveva restare italiana e imparentarsi con Legacoop. La solenne arrabbiatura del Dottore partorì il best-seller. Un paio d'anni fa fece scalpore la notizia che l'ultraottuagenario si era ripreso le quote sociali cedute fiduciariamente ai figli. I maggiori, Giuseppe e Violetta, avuti dalla prima moglie, aprirono un contenzioso. Nemmeno un arbitrato ha chiuso la «dinasty»: avendo dato ragione al padre, i figli l'hanno impugnato. Ora il futuro di Esselunga è scritto nel testamento che Caprotti ha depositato dal notaio milanese Carlo Marchetti. E il presente è nelle mani di un gruppo di manager capaci, guidati dall'amministratore delegato Carlo Salza, che in questi anni di crisi dei consumi ha pilotato il gruppo verso risultati eccellenti: 144 punti vendita, 20mila dipendenti, 6,8 miliardi di euro di fatturato, quasi 240 milioni di utile nel 2012. Meditazioni e tristezze, scrive Caprotti. Ai postumi dell'infortunio si aggiungono le ferite dei rapporti familiari cui l'imprenditore accenna in una seconda lettera pubblicata ieri dal Corriere della Sera in cui egli svela una «congiura» ai danni suoi, di Salza, della segretaria personale Germana Chiodi e di altri. «Dovevamo essere fatti fuori, ma noi siamo un gruppo di ferro», scrive. «In questo orrido frangente, purtroppo quella figlia (Violetta, ndr) ha creduto» a «un vecchio che qui aveva fatto troppa carriera» e non «al suo papà». E così, «nello sbalordimento dei suoi e dei miei professionisti, neppure ha voluto considerare l'opportunità miliardaria di ricevere 84 immobili dal reddito ingente e sicuro e mettersi tranquilla. Qui sta la chiave di tutto». Nella lettera c'è anche una risposta piccata a un altro recente articolo del Corriere, che rendeva nota una serie di donazioni per complessivi 80 milioni di euro fatte dal Signor Esselunga a parenti e dipendenti: 30 milioni alla seconda moglie, 10 alla terzogenita Marina Sylvia (l'unica dei figli che siede nel consiglio di amministrazione), 7,5 a Violetta, 2,8 a Giuseppe, 4 a ogni nipote; a tre manager un milione ciascuno e una decina alla segretaria, oggi in pensione ma rimasta in azienda con un contratto di consulenza, una donna in gamba, fedele e discreta che ha dedicato una vita di lavoro all'azienda e al Dottore. A Caprotti non è piaciuto («mettere queste cose in piazza mi ripugna») che il Times italiano abbia sbandierato i suoi conti correnti, spulciato gli archivi notarili e squadernato la sua munificenza senza ricordare i milioni dati in beneficenza né «le montagne di cose e di soldi che hanno avuto i miei due figli maggiori». Bernardo Caprotti in pensione, un'immagine strana. Dalla manifattura di famiglia alle lotte contro i sindacati, dalle piantagioni texane ai superstore, Caprotti non si è mai risparmiato come Federico II che si definiva «il primo servitore dello stato». Non farà vita da imperatore emerito, girerà i cantieri dei supermercati in costruzione e si fermerà a chiacchierare con le massaie davanti al banco della verdura.

Lui che ha inventato le tessere fedeltà, i magazzini a lettura ottica e il conto senza cassiera, si toglierà la soddisfazione «di non essere più subissato da montagne di carte e di pratiche che mi imprigionano e mi impediscono». Forse penserà al giorno, lontanissimo, in cui saranno tolti i sigilli alle sue volontà. E alle facce dei presenti.

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