Matteo Renzi, nonostante le dichiarazioni di facciata ieri su Twitter, non sembra proprio avere l'inclinazione per giocare da «mediano». Il sindaco di Firenze sa che se vuole fare goal e prendersi tutta la scena, il ruolo è quello del centravanti. La porta, anzi le porte da attaccare sono quelle del Quirinale.
L'avversario numero uno non è né il premier Enrico Letta né il suo «socio» Angelino Alfano. Bensì Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica. Per vincere bisogna detronizzarlo e se tre indizi fanno una prova, la «rivoluzione» è già cominciata. In primis, domenica scorsa nell'assemblea del Pd che lo ha investito formalmente della segreteria, Renzi non ha rivolto nemmeno un saluto alla Presidenza della Repubblica. Una scelta poco allineata al rigoroso formalismo «piddino» e che ha scontentato molto i lettiani. Lunedì scorso, nella cerimonia degli auguri di buone feste al Quirinale oltre alla mise chiara e informale, il sindaco ha saltato a pie' pari il ricevimento andando via senza salutare. «Sono allergico ai buffet istituzionali», ha precisato.
Ma è difficile dare credito alle quotidiane rassicurazioni quando nei palazzi romani si vocifera che Matteo abbia avanzato ufficiosamente una richiesta di rimpasto. In pratica Letta dovrebbe fare spazio a esponenti renziani in tre caselle molto importanti: il ministero degli Esteri, il ministero della Giustizia e il ministero del Lavoro.
Si tratta di dicasteri fondamentali per l'«agenda Renzi». Alla Farnesina si può avere la facoltà di battere i pugni sul tavolo quando si interloquisce con l'Unione Europea e chiedere che il suo cieco rigorismo venga accantonato in favore di politiche volte allo sviluppo, cioè si possono chiedere deroghe al Patto di Stabilità per gli investimenti in infrastrutture. Cambiare la giustizia è un mantra renziano: velocizzare il processo civile e combattere il sovraffollamento delle carceri. Infine, il capitolo lavoro che prevede lo stravolgimento della legge Fornero per agevolare esodati e lavoratori con contratti flessibili (a cui, se possibile, unire un reddito minimo garantito).
I tre ministeri, sorprendentemente, non sono nella titolarità di esponenti alfaniani (la controparte cui Renzi ha imposto di «autoridursi» lo spazio vista la poca significanza numerica), ma sono tutti (o quasi) di diretta nomina quirinalizia. Il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, è stata difesa da Napolitano che ne ha imposto la conferma della fiducia dopo l'inopinata pubblicazione delle conversazioni telefoniche con la moglie di Salvatore Ligresti. E forse non è un caso che tra le persone cui lunedì Renzi non ha rivolto neppure un saluto al Quirinale ci fosse l'ex titolare del Viminale. Anche l'ex presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, è stato cooptato al dicastero del Lavoro dal capo dello Stato che ha voluto «tecnici» nei posti dove la politica avrebbe potuto sottrarsi alle scelte difficili imposte dai diktat comunitari. Meno «caratterizzata» è Emma Bonino, resa dalla ventennale consuetudine con le questioni dell'Unione una sorta di tecnico ad honorem.
È chiaro che se Letta accontentasse i desiderata renziani, oltre a muovere i tasselli di un puzzle instabile quale è l'esecutivo delle intese ristrette, scatenerebbe le ire del Quirinale, vero nume tutelare di Palazzo Chigi con il quale tutte le mosse sono concordate. Insomma, la crisi al buio - in quel caso - diventerebbe più di un'ipotesi. Un ballon d'essai renziano, quindi? Una sortita per vedere l'effetto che fa? La risposta potrebbe essere parzialmente affermativa. E sempre alle esternazioni via Twitter di ieri bisogna tornare.
«La legge elettorale meglio farla con il più ampio schieramento possibile». «Sono bello tosto per far sì che l'Italia possa ricevere una scossa dal Pd». Sono forse queste le parole adatte per uno che vuole fare una semplice «vita da mediano»?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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