Ridateci gli architetti dell'antica Roma

Un ponte in Maremma si sfarina sotto il maglio della piena. Tre vite perdute nella voragine di fango. Abbiamo ancora negli occhi le immagini di quel viadotto tra Piacenza e Lodi, aprile 2009, umiliato dal Po come una V capovolta, dopo aver scodellato auto e corpi nella melma. Niente può offuscare la pietà per le esistenze spezzate. Ma la nostra considerazione è un'altra. L'Italia è la culla dei ponti. È un'eredità dei maestri romani. Quando si sale da Aymaville a Cogne, un tuffo d'asfalto, sulla destra, ci porta alla forra di Pondel. Laggiù infuria il Gran Enya, gorghi ghiacciati che si precipitano dal Gran Paradiso, 90 metri di canyon. Tra le due coste, come inchiavardato dalla mano di Dio, s'incunea un manufatto di pietra, ponte e acquedotto, che forse neppure le trombe del giudizio potrebbero incrinare. Lavora da duemila anni. L'hanno fatto costruire Avilius e Aimus, due cittadini romani privati - avete capito bene, privati, immuni da fondi e tangenti - che hanno ammassato quadrelli di sasso sano della zona, saldati dalla pozzolana, senza risparmio: volevano portare gente e acqua ai loro poderi vallivi, ai cantieri, alle miniere. Dove sono le firme dei costruttori dei ponti di cartapesta di oggi? Julius Lacer è l'architetto che ha gettato sei perfette campate sul Tago, ad Alcántara, con i due pilastri quadrangolari di pietra che parlano la lingua dell'eterno. Ci misero i soldi undici comunità lusitane, che si fidavano del costruttore e hanno impresso i loro nomi sul manufatto, come un sigillo di lealtà. Qualcuno criticò l'opera. Lacer aveva esagerato. L'altezza della sede stradale pareva eccessiva, per un corso, in quel punto, basso e incassato. Ma il Tago, d'inverno, ingrossa fino a lambire le basi degli archi, che rispondono alla sfida. «La mia opera durerà per sempre nei secoli futuri», ha scritto Lacer. La storia non l'ha ancora smentito. I Romani erano gente di fiume. Il Tevere tagliava il loro abitato, formava l'isola Tiberina. I ponti erano arterie vitali. I primi, come il Sublicius («posato su pali») erano interamente di legno. Il ferro e il bronzo banditi, come materiali sacrileghi. Perché il ponte, a quei tempi, era impregnato di religione. In ogni fiume albergava un dio. Imbavagliarlo con pali confitti nell'alveo e passerelle sulla sua maestà era quasi trattarlo da schiavo. Bisognava esorcizzarne la furia. I genieri costruivano, ma poi intervenivano sacerdoti e sciamani con cantilene rituali e offerte di risarcimento. Il loro capo si chiamava «pontifex», colui che consacra il ponte, un titolo destinato a diventare sempre più solenne. Il legno era precario. In caso di attacco nemico, si tagliava, si bruciava. Quando Roma non ebbe più nemici, ma solo domini, passò alla pietra. Dagli Etruschi, i Romani avevano imparato la tecnica della volta. La applicarono ai ponti, in forma di archi a conci radiali. Eressero così edifici smisurati. Il ponte di Mérida, in Spagna, corre sul Guadiana per 790 metri, con le sue 60 arcate. Quello di Salamanca lotta ancora con le piene improvvise del Tormes, 735 metri di pietra che sembra cavata ieri. Riflesso sull'acqua, l'arco a tutto sesto romano disegna un cerchio perfetto, emblema di armonia costruttiva che imbriglia il caos furente della natura. Dai calcoli, gli ingegneri sapevano che il punto critico della luce di un'arcata di pietra è a 40 metri: si fermavano a 35, alzando il viadotto in proporzione. Il risultato era una macchina indistruttibile che alla potenza funzionale univa l'eccellenza estetica.

Chi, oggi, attraversa il Marecchia di Rimini sulle antiche pietre di Tiberio, assapora il culmine del design: solidità d'uso in forma d'arte. Il ponte che crolla, oggi, non è solo una sconfitta e, forse, un crimine: è il ripudio di un lascito meraviglioso che evidentemente non meritiamo.

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