Quel bozzolo non promette nulla di buono. Quell'ammaccatura sa di rancido. Quella curvatura poi, diamine, così innaturale. No, non è una nonna petulante a dircelo, ma l'Unione Europea, che in fatto di petulanza la sa lunghissima. Tutte quelle norme, criteri, cavilli in base ai quali la frutta che non risponde agli «standard di qualità» europei non può essere venduta sul mercato. E però quella frutta mantiene una sua dignità. Sgraziata alla vista, ma egualmente buona e godibile. Tanto che sei mesi fa in Portogallo è nata una cooperativa, «Fruta Feia» («Frutta brutta» alla lettera), che compra a basso prezzo i prodotti scartati dall'Europa e li rivende ai soci. Risparmi, mangi cibo sano e saporito e eviti di mandare al macero una parte di quei 89 milioni di tonnellate di cibo che ogni anno nel nostro continente viene cestinato a cuor leggero.
«Le norme dell'Unione Europea si basano sui criteri di qualità e apparenza», denuncia Isabel Soares, promotrice di «Fruta Feia». «E questo contribuisce ad aumentare lo spreco di cibo». Non è la prima voce che si leva contro l'Unione Europea, accusata di imporre bizzarrie della peggior specie. Forma, dimensioni, colore: mamma Europa vuole sapere tutto, fregandosene se poi quel pomodoro o quelle pere che non rientrano negli standard hanno le stesse qualità e le stesse proprietà dei loro «fratelli» più fortunati esteticamente. Una sorta di ordalia che è diventata una delle battaglie madri da parte di molti ambienti euroscettici, nonché motivo di scherno da parte degli statunitensi. Al punto da convincere l'Unione Europea sei anni fa a ritornare parzialmente sui propri passi: le norme restrittive non riguardano più 36 tipi di frutta e verdura (tra cui la curvatura di banane e cetrioli), ma unicamente dieci. Che, però, abbracciano il 75% del mercato ortofrutticolo: si tratta di mele, agrumi, kiwi, lattughe con indivie ricce e scarole, pesche e pesche nettarine, pere, fragole, peperoni dolci, uve da tavola, pomodori.
È sufficiente che una mela presenti un difetto di buccia superiore a 4 cm di lunghezza perché scatti la scure dell'Unione Europea. «Siamo stufi della dittatura dell'estetica - attacca la Soares -, questo è il peggior modo per determinare la qualità di un frutto. Piuttosto andrebbero soppesate le caratteristiche interne, come i livelli di zucchero». E così, si rinuncia a frutta che sarebbe invece graditissima sulle nostre tavole, e che invece nella migliore delle ipotesi - quando non finiscono in discarica - diventano marmellata o cibo per animali. Il meccanismo di «Fruta Feia» funziona in questo modo: i tre volontari (c'è anche un italiano, Andrea Battocchi) acquistano dai contadini quei prodotti che non possono essere immessi nel circuito di vendita. A un prezzo minimo, fuori mercato: comunque un guadagno per i coltivatori, che altrimenti si vedrebbero costretti a dire addio a una parte considerevole del proprio lavoro. A questo punto, «Fruta Feia» redistribuisce il cibo salvato ai suoi soci (ad ora 420, ma ci sono circa mille persone in lista d'attesa), che pagano la miseria di 3,50 euro a settimana per una cassa contenente circa otto chili di frutta e verdura. Senza che la vendita comporti alcuna infrazione delle norme europee, che si applicano solamente al cibo etichettato o confezionato.
E così sono contenti tutti. I contadini, che salvano tutto il loro raccolto e gioiscono nel sapere che la loro fatica non è stata vana.
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